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Turchia, lo Stato che ammicca a tutti

Da Est a Ovest, da Putin all’UE, passando per Netanyahu, il Paese di Erdogan ammicca un po’ a tutti, sedendosi a tutti i tavoli che contano. Una sorta di strategia della distensione a turno. Che potrebbe non essere piaciuta a chi potrebbe aver ideato l’attentato del 23 ottobre scorso.

Nel primo pomeriggio del 23 Ottobre, un taxi giallo irrompe nell’area di sosta di fronte all’ingresso del quartier generale dell’Industria Aerospaziale turca a Kahramankazan, cittadina cinquanta chilometri a nord della capitale Ankara.

I due sportelli si spalancano completamente.

Un uomo e una donna, con zaino sulle spalle e fucile d’assalto in braccio scendono dal veicolo e iniziano ad aprire il fuoco. Esplode una bomba all’ingesso dell’edificio. I due attentatori saltano i tornelli ed entrano nella struttura, tenendo per ore decine di persone in ostaggio. Il bilancio è di cinque vittime e oltre venti feriti.

Tutto avviene nelle stesse ore in cui il Presidente turco Erdogan atterra in Russia, per partecipare al vertice dei Brics, insieme a Putin, Xi Jinping, Lula, Ramaphosa e tutto il resto della compagnia. Il giorno prima, Devlet Bahceli, parlamentare leader del Partito del Movimento Nazionalista turco, alleato del presidente Erdogan si era rivolto ad Abdullah Öcalan, il fondatore del partito del lavoratori del Kurdistan (Pkk).

Il ruolo del Pkk

«Vieni in Parlamento, annuncia lo scioglimento del Pkk e la fine della lotta armata». Aveva detto. La risposta del settantacinquenne leader curdo non è tardata ad arrivare, per tramite di un suo parente deputato del partito democratico, terza forza politica più rappresentata in Parlamento: «Se ci sono le giuste condizioni, ho il potere teorico e pratico per spostare questo processo dal terreno del conflitto e della violenza al piano legale e politico».

Erano quattro anni che a Öcalan non erano concesse visite in carcere. Carcere in cui è confinato dal Febbraio 1999, sull’isolotto di Imlari nel Mare di Marmara. Venticinque anni fa era stato arrestato in Kenya e condannato a morte per attività separatista armata e terrorismo. La pena fu commutata in ergastolo, dopo che la Turchia, agli inizi del Duemila abolì la pena capitale.

Öcalan fu tra i fondatori del Pkk, formazione politico-militare curda, che nel 1978 nasce con ispirazioni marxiste-leninste, con lo scopo della creazione dello Stato indipendente del Kurdistan, fra Turchia, Iraq, Iran e Siria. Le sue ultime parole indicano un possibile nuovo orizzonte per il suo gruppo, da 40 anni impegnato in una sanguinosa guerra contro lo Stato turco che ha provocato la morte di oltre quarantamila persone. Il disarmo in cambio di qualche concessione potrebbe essere un primo passo verso la pacificazione del Paese. Già tra il 2013 e il 2015 c’era stato un primo tentativo di accordo, passato alle cronache come processo per la soluzione. Tuttavia la violenza esplose nuovamente, poche settimane dopo le elezioni parlamentari del 2015.

L’attentato del 23 Ottobre potrebbe essere una reazione dei combattenti più intransigenti del Pkk a questa nuova iniziativa di distensione e non è un caso se lo stabilimento assaltato vicino alla capitale è dove si lavora anche ai jet che Ankara usa per bombardare i curdi.

Le autorità turche hanno avuto così pochi dubbi su chi fossero i responsabili dell’attentato, che già nella stessa serata hanno dato inizio alla rappresaglia. Bombe contro trentadue obbiettivi dichiarati, fra le montagne del Kurdistan iracheno e le postazioni dei curdi siriani a Kobane, nonostante i curdi siriani siano alleati degli Stati Uniti nella lotta contro lo Stato Islamico e la Turchia faccia parte della Nato.

Ambiguità per alcuni osservatori, potenza geometrica per altri.

Pragmatismo imposto dalla geografia molto più probabilmente.

Turchia, lo Stato che fa accordi con tutti

La posizione geografica della Turchia è insieme il suo destino e la sua condanna e Istanbul ne è il simbolo più rappresentativo: l’unica metropoli costruita su due continenti. Erdogan ha saputo massimizzare la posizione geografica del suo Paese, facendola diventare più importante delle condizioni economiche.

Con una inflazione che nel 2024 ha toccato anche il 70% continua a dire che va tutto bene e farcisce i suoi discorsi con la visione tipica dei grandi imperi, di chi crede cioè che la storia sia sempre viva, che avvenimenti di cinquant’anni fa o di duecento anni fa, siano accaduti ieri. Per via della sua strategicità nessuno può permettersi davvero di rompere i rapporti con la Turchia.

È stata la presidenza turca a favorire gli ultimi scambi di prigionieri fra Stati Uniti e Russia e sempre la presidenza turca è stata a trattare gli accordi sul grano ucraino, che nel 2022 sbloccarono le forniture verso le aree più disagiate dell’Asia e dell’Africa.

L’attentato del 23 Ottobre è arrivato nel giorno in cui Erdogan arriva come ospite a Kazan, in una adunanza che, aspira a capovolgere l’attuale ordine mondiale. Eppure, quando nel dicembre del 2022 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite votò una risoluzione proprio a favore di un “nuovo ordine economico mondiale”, l’unica delegazione ad astenersi fu quella proprio quella turca.

Ancora una volta né sì né no, nessuna posizione netta.

Perché questa è la cifra della Turchia, ancor di più di quella a guida Erdogan.

Flirtare con i Brics e restare nella Nato di cui dopo Stati Uniti e Regno Unito rappresenta il contingente militare più importante.

Dialogare e fare affare con Putin, il suo vicino più ingombrante a nord, con il quale condivide lo spazio del Mar Nero, divenuto una sorta di base navale di entrambe le marine, ma contemporaneamente fornire droni militari prodotti dall’azienda bellica di suo genero all’Ucraina, oltre a sostenere l’Azerbaigian nell’invasione del Nagorno-Karabakh ai danni dell’Armenia, storico alleato di Mosca.

Supportare l’azione del Sudafrica presso la Corte Internazionale di Giustizia per l’accusa di genocidio verso i palestinesi, ma bombardare le popolazioni curde e disconoscere costantemente l’eccidio degli armeni di inizio Novecento.

Guardare ad ovest, verso l’Unione Europea con l’ambizione mai celata di volerne entrare a far parte, al punto da diventare un partner essenziale nel contenimento dei fenomeni migratori, ma al tempo stesso alimentare lo stato di permanente ostilità con la Grecia e con Cipro, per antiche ragioni di rivendicazioni territoriali nel Mar Mediterraneo.

Sempre verso ovest, la Turchia esercita una intensa fascinazione culturale e intraprendenza economica nei Balcani, soprattutto in Albania, Bosnia, Kosovo, Macedonia del Nord ed è impegnata in una progressiva distensione con la Serbia.

Tutti Paesi candidati all’ingresso nella comunità di Bruxelles, ma ancora lontani dal traguardo e, pertanto, sospesi a metà del guado.

Al suo confine est si fa forte di una lunghissima catena di Paesi e popolazioni dell’ex-Unione Sovietica a maggioranza turcofona, riuniti nell’Organizzazione degli Stati Turchi, che comprendono dal già citato Azerbaigian sino al Kazakistan e al Kirghizistan, in grado di allargarsi idealmente persino alla regione degli Uiguri in Cina.

L’affinità di essere uno Stato non-arabo musulmano in mezzo alle terre degli arabi sebbene l’uno sunnita e l’altro sciita, ha vivacizzato i rapporti con il vicino Iran, con il quale condivide l’eredità dei grandi imperi da cui discendono oltre alla volontà di confermarsi potenze egemoni nella regione. Per questo, pur sovrapponendo le rispettive sfere di influenza, si tollerano a vicenda nelle ingerenze in Libano, Siria e Iraq.

La Turchia e Israele

L’escalation verbale di Erdogan contro Israele e la sua amministrazione nell’ultimo anno, ha raggiunto l’apice lo scorso Luglio quando ha evocato la possibilità di invadere lo Stato ebraico. Una affermazione che fa da contraltare all’amichevole bilaterale del 23 Settembre 2023 a New York, con Netanyahu. Ma il 7 Ottobre ha cambiato tutto.  

La guerra mediorientale rappresenta un viatico utile per provare a guadagnare la leadership della galassia islamica e così fomentare l’odio e la lotta contro Israele, diventa una strategia per ergersi quale potenziale leader del mondo musulmano.

Blindato dalla sua geografia, Erdogan ha potuto implementare la sua agenda politica attraverso le dottrine cosiddette della profondità strategica e della patria blu.

Laddove la prima risponde alle aspirazioni del neo-ottomanesimo di ripristinare il predominio turco sull’antico spazio imperiale, sfruttando i legami storici, culturali e sociali per promuovere i propri interessi, la seconda mira ad espandere la leadership sulla costruzione di una potenza marittima, in grado di svilupparsi anche sulla terra attraverso una efficace rete portuale e infrastrutturale e di esercitare sovranità sui giacimenti di gas e petrolio, rivenuti nell’area.

Queste particolare ambizione, raffinata strategia e totale libertà d’azione hanno consentito alla Turchia di affermarsi come attore protagonista nel continente africano, laddove il solo dato del numero di ambasciate triplicate nell’ultimo periodo è esemplificativo della sua presenza capillare.

La Libia, la Somalia su tutti, ma non solo. Ne abbiamo già parlato abbondantemente nella nostra lunga inchiesta sull’Africa di inizio 2024, la Turchia ha acquisito influenza nel continente tanto attraverso l’esportazione di armi e di addestramento militare, quanto attraverso il lavoro di agenzie ed enti caritatevoli, che svolgono un ruolo cruciale nel radicamento del soft power turco. https://www.laredazione.net/africa-terra-di-business-e-di-armi-2/

Affari, religione, armi, soap opere, chirurgia estetica a basso costo: tutto si mescola e si alimenta a vicenda nella grande strategia di espansione turca, verso ogni angolo e cultura del mondo.

Per molti può trattarsi di ambiguità, capacità di non schierarsi mai nettamente da una parte o dall’altra delle questioni.

Forse, in realtà, la Turchia ha scelto da tempo da che parte stare: la sua.

@foto di Lorenzo Crupi