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24 Aprile 2021La brioche “pandemica” e i cibi social. Un viaggio nel mondo dei bar e ristoranti
La difficoltà di bar e ristoranti è quella di imprenditori e dipendenti, ma pure di un popolo che si nutre di questi luoghi. È uno squasso economico. E anche del nostro essere figli del Bar Sport1 e di figli nutriti di cibi, come fossero tacite dosi d’amore. Passiamo dal bar per il caffè, anche dopo averlo già bevuto a casa, perché il caffè al bar è il nostro ingresso quotidiano nel mondo, poi c’è sempre qualche fatto nuovo da conoscere. Sono affreschi della commedia umana2. Tanto che anche caffè e cornetto finiscono per parlare di come siamo. Molti tipi diversi di caffè, compresa la macchiatura con il latte di soia, ci raccontano di una società capricciosa; chi prende un caffè normale risulta addirittura trasgressivo e originale; il caffè “sospeso” ci sussurra solidarietà e amicizia; la pezzatura della brioche, via via ristrettasi nel tempo, ci descrive una società opulenta e grassottella, come i cuori disegnati sul cappuccino ci parlano di una professionalità sempre più spiccata che fa mangiare e bere prima con gli occhi.
Arriviamo, poi, al ristorante, mai nutriti per sempre, eppure fiduciosi verso quei primi alchimisti di felicità, oltre che di materia, che sono i cuochi. È il luogo dell’attesa: mentre nel piatto si compone l’incontro tra natura, geografia ed essenza materna, a tavola si ricompone ogni volta la sorpresa della socialità, mai paga.
Ed ecco perché è uno squasso profondo.
Vero, in pochi mesi, abbiamo rovesciato fuori da piatti e tazzine del caffè il valore di una Finanziaria “lacrime e sangue”. Sono quasi 35 miliardi i soldi persi da ristoranti e bar nel 2020: l’intero settore ha lasciato per strada il 36% del proprio giro d’affari, depauperandosi di oltre 22 mila imprese cessate. Sono stati 200 i giorni di chiusura tra il 2020 e il 2021, a causa delle restrizioni per la pandemia. C’è certamente un problema economico enorme per un settore vitale per la nostra economia e per la nostra società, che impiega oltre 1,2 milioni di persone, che vede un terzo delle attività gestito da donne e che ha per sua natura una fragilità strutturale, probabilmente per la delicatezza del doverci nutrire. Tant’è vero che già nell’epoca pre-Covid, in particolare per i ristoranti, questa era la situazione: il 25% dei nuovi ristoranti aperti in Italia chiudeva entro un anno dall’apertura, il 50% chiudeva entro tre anni e il 57% “gettava la spugna” dopo soli cinque anni (dati Fipe, Federazione Italiana Pubblici Esercizi).
Eppure c’è anche tanto di più. Ed ecco perché abbiamo voluto cominciare l’inchiesta facendoci raccontare il 2020 e questo scorcio di 2021 da chi ha un bar da una vita e da una vita osserva dalla pedana, dietro il banco, come fosse il palcoscenico di un teatro al contrario.
La rivoluzione del bar “pandemico” tra social e porta a porta
Si trova nel centro storico di un Comune bolognese di 18 mila abitanti, il bar pasticceria e gelateria di A. che vi lavora da quando è ragazzina: è a conduzione familiare, di famiglia. Dal ‘97, in particolare, con questo stesso assetto e questa compagine di parenti. Quattro dipendenti sono l’effetto di lavoro e sacrificio e, quindi, dell’apprezzamento da parte del paese.
Il momento peggiore di questi mesi? L’annuncio della chiusura, con quel famoso decreto dell’11 marzo 2020. “Ero sul divano, davanti alla tv”. “Siamo rimasti immobili. E adesso che facciamo? Era terrore per una situazione mia vista, come persone. Solo dopo abbiamo pensato al bar, ad andarci subito per buttare via tante cose del giorno prima”. Un giorno prima particolare, messo tutto nel cestino, oggetti e pensieri, in maniera surreale, tanto che ci evoca un’immagine: una Pompei, non cristallizzata dalla lava, ma da un virus. E proprio i pensieri sono stati la difficoltà più grande. “Noi siamo tutti cinquantenni e il dover riorganizzare il lavoro, dopo decenni che lo fai in un certo modo, è stato difficile”. È la prima cosa che ci racconta. “Abbiamo chiesto aiuto ai giovani, per andare sui social. Avevamo tutte le uova di Pasqua da vendere e mia nipote che in quel periodo ha potuto aiutarci le ha vendute tramite il telefono, ha fatto le foto di tutte, a una a una”. “Poi – prosegue – ci siamo organizzati per le consegne delle colazioni a casa, il sabato e la domenica. Lavoravamo tutta la settimana per poi alzarci il sabato e la domenica alle 4,30 per consegnare la colazione. Il primo giorno ho cominciato con due colazioni in una frazione sperduta di un altro Comune. Porta a porta con tutti gli indirizzi, non ero tanto capace, poi ho imparato. Solo allora ho capito davvero il lavoro dei corrieri”. “Il primo fine settimana abbiamo incassato 100 euro, poi meglio. Il cliente magari cambiava la brioche al cioccolato con quella alla crema, al telefono la sera alle 11, per la mattina dopo, eppure eravamo contenti anche solo di poter fare qualcosa”. “Ricordo che un giorno – racconta A. – ho fatto un buon giro, sono rientrata dicendo a mia sorella che finalmente avevamo fatto molto bene. Lei mi ha risposto che eravamo sotto di 6 mila euro. Fino alla fine di maggio tutti noi non abbiamo preso un euro di stipendio, abbiamo perciò usato i soldi risparmiati in passato per far fronte alle spese delle nostre famiglie che certo non sono cessate”.
“Per fortuna tutti e quattro i dipendenti hanno ricevuto subito la cassa integrazione. Poi il proprietario dell’immobile ci ha fatto una piccola riduzione del canone d’affitto per un paio di mesi, dopo quasi 35 anni che paghiamo regolarmente. Lo ha proposto lui. Acqua e luce li abbiamo comunque dovuti pagare sempre, e tanto: anche se sei chiuso o lavori meno, non puoi certo spegnere un frigo”.
“Così siamo arrivati a settembre e ottobre, quando c’è stato un altro momento molto difficile. L’asporto. Da allora la relazione con le persone è stata molto complicata. Molto molto faticoso far rispettare le regole. La sera si arriva a casa con una tensione enorme, tra il desiderio di preservare la propria salute al massimo e quella di accontentare i clienti e lavorare. Bisogna spiegare che si deve tenere la mascherina, che si deve consumare altrove, che non puoi fare il caffè dopo le 18, ogni cosa va spiegata e rispiegata. In continuazione”. “Mi dico: ma se quelli che vengono al bar ogni giorno sono così depressi o arrabbiati, figuriamoci come saranno quelli che non escono nemmeno”. “Poi, – scherza A. – siamo pure brutti, capelli lunghi, con delle ricrescite impressionanti. Accidenti se siamo imbruttiti. Vedi certe signore che prima erano tutte tenute e ora, essendoci state le parrucchiere chiuse, hanno dei capelli orribili”. Poi, c’è il tema spreco. “Per un certo periodo non si trovavano più nemmeno i bicchierini di carta o plastica. Poi, sono arrivati in abbondanza, fuori ci sono i bidoni stracolmi di materiale, pensare che dobbiamo incartare anche il singolo gelato per vedere buttar via la carta a due passi dall’uscita. Abbiamo anche dovuto gettare (e ancora dobbiamo) molti articoli scaduti perché ora i clienti non chiedono certo l’acqua brillante da asporto”.
Ci lasciamo sul busillis dei dehors da poter utilizzare dopo il 26 aprile. “Ancora non sappiamo come ci si dovrà organizzare”. E comunque sembra restare in controluce la fatica della relazione profondamente modificata con le persone. Traspare anche dalle parole. Prima della pandemia, dire a qualcuno “prendiamoci un caffè insieme” significava non tanto bere una tazza di bevanda calda accanto a qualcun altro, ma parlare un linguaggio a parte: offrire un po’ di noi, conversazione, attenzione, desiderio di vedersi, una risata. Anche bere un bel caffè da soli significava concedersi un momento piacevole, meritarsi una gioia all’interno di una giornata di impegni. Ora, diventando caffè da asporto, acquista, soprattutto, il sapore del “mamma mia, dove lo bevo?, qui andrà bene, quanti rifiuti con tutti questi coperchietti, faccio in fretta così non disturbo” e altro. Figuriamoci per chi deve prepararli questi caffè da asporto.
Allo stesso modo, la riapertura delle attività con i tavolini all’esterno non sembra voler dire automaticamente “bere e mangiare en plein air”. Intanto, “significa – fa sapere l’associazione di categoria dei pubblici esercizi, Fipe – prolungare il lockdown per 116 mila pubblici esercizi. Il 46,6% di bar e ristoranti della penisola non è dotato di spazi all’aperto e questa percentuale si impenna, se pensiamo ai centri storici delle città nei quali vigono regole molto stringenti “. Di qui l’invito da parte dell’associazione a trovare delle soluzioni sul campo, con le amministrazioni comunali.
I numeri
Di sicuro, si potrebbe raccontare un popolo attraverso i numeri di bar e ristoranti, si potrebbero descrivere comportamenti e abitudini, e ancor di più tramite i dati del prima e post Covid.
Nell’epoca precedente alla pandemia, oltre il 65% degli italiani faceva colazione fuori casa, fosse anche per un caffè. Almeno 3 o 4 volte la settimana. Dei 150 mila bar presenti in tutto il Paese (quasi altrettanti sono i ristoranti) la maggior concentrazione, i due terzi, si aveva in Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, Toscana, Lazio e Campania. La spesa media era di 2,50 euro, caffè e cornetto. I giovani tra i 25 e i 34 anni rappresentavano la fascia che spendeva di più, il 22,5% spendeva più di 3 euro. Snack e cibi dolci rappresentavano le reginette della colazione al bar (73% degli ordini), il 56% il caffè (dati Fipe, rapporto inizio 2020). Ante Covid, il fatturato medio dei bar italiani era di 465 mila euro l’anno, con un risultato netto dello 0,3%. Risultavamo un popolo che amava mangiare fuori. I consumi alimentari fuori casa raggiungevano il 36% circa dei consumi alimentari complessivi. Nel fatturato complessivo dei ristoranti di 85 miliardi (2019) risultavano in crescita take away, paninoteche e kebab. È cresciuto molto il food delivery, ancor prima della pandemia, da solo nel 2019 ha fatturato un miliardo di euro.
Dopo i 200 giorni di chiusura della ristorazione e dopo le misure di restrizione, è difficile immaginare come si evolveranno i costumi e, perciò, la domanda. Per esempio, più o meno delivery?
Dalla parte dell’offerta, invece, ci si attende un’ulteriore modifica del tessuto della ristorazione, con una cancellazione di imprese, tutt’altro che fisiologico, a partire dal secondo e terzo trimestre di quest’anno. A ipotizzarlo è Fipe/Confcommercio. Anche sul tema dei ristori (parola che, per una beffa del destino, ha la stessa radice di “ristorazione”), il direttore di Fipe-Confcommercio, Roberto Calugi, fa sapere che “i contributi a fondo perduto ricevuti tra 2020 e 2021 dai titolari di bar e ristoranti sono stati ritenuti poco o per nulla efficaci dall’89,2% degli imprenditori, con 8 titolari su 10 che si sono visti ristorare il 10% circa di quanto perso lo scorso anno”.
1”Al Bar Sport non si mangia quasi mai. C’è una bacheca con delle paste, ma è puramente coreografica. Sono paste ornamentali, spesso veri e propri pezzi d’artigianato. Sono lì da anni, tanto che i clienti abituali, ormai, le conoscono una per una. Entrando dicono: «La meringa è un po’ sciupata, oggi. Sarà il caldo». Oppure: «È ora di dar la polvere al krapfen». Solo, qualche volta, il cliente occasionale osa avvicinarsi al sacrario. Una volta, ad esempio, entrò un rappresentante di Milano. Aprì la bacheca e si mise in bocca una pastona bianca e nera, con sopra una spruzzata di quella bellissima granella in duralluminio che sola contraddistingue la pasta veramente cattiva. Subito nel bar si sparse la voce: «Hanno mangiato la Luisona!». La Luisona era la decana delle paste, e si trovava nella bacheca dal 1959. Guardando il colore della sua crema i vecchi riuscivano a trarre le previsioni del tempo. La sua scomparsa fu un colpo durissimo per tutti. Il rappresentante fu invitato a uscire nel generale disprezzo. Nessuno lo toccò, perché il suo gesto malvagio conteneva già in sé la più tremenda delle punizioni. Infatti fu trovato appena un’ora dopo, nella toilette di un autogrill di Modena, in preda ad atroci dolori. La Luisona si era vendicata”, da Stefano Benni, Bar sport.
2“Il tecnico da bar, più comunemente chiamato «tennico» o anche «professore», è l’asse portante di ogni discussione da bar. Ne è l’anima, il sangue, l’ossigeno. Si presenta al bar dieci minuti prima dell’orario di apertura: è lui che aiuta il barista ad alzare la saracinesca. Il suo posto è in fondo al bancone, appoggiato con un gomito. Lo riconoscerete perché non si siede mai e porta impermeabile e cappello anche d’estate. Dal suo angolo il tecnico osserva e aspetta che due persone del bar vengano a contatto. Non appena una delle due apre bocca, lui accende una sigaretta e piomba come un rapace sulla discussione. Nell’avvicinarsi, emette il verso del tecnico: «Guardi, sa cosa le dico», e scuote la testa. Il tecnico resta nel bar tutta la mattina: nei rari momenti di sosta tra una discussione e l’altra, studia la Gazzetta dello Sport. […] Normalmente, si ciba solo di aperitivi, olive, patatine fritte e caffè, venti normali e venti hag al giorno. Oppure fa un rapido salto a casa e mangia invariabilmente tortelloni, anzi li ingoia dicendo: «Ho fretta, devo andare in ufficio». L’ufficio è il bar, dove il tecnico ricompare alle due meno dieci per restarvi fino all’ora di chiusura” , da Stefano Benni, Bar sport.