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Dal Cloud al bitcoin, grandi divoratori di energia
di Salvatore Luigi Baldari
Circa un mese fa, rimasi molto colpito da un’affermazione del Ministro alla Transizione Ecologica, Roberto Cingolani, durante una intervista televisiva, che riporto qui testualmente: ‹‹Bisogna far capire alla gente che ogni azione ha una conseguenza. I social non sono gratis, siamo noi il prodotto. E infatti anche i social producono il 4% dell’anidride carbonica immessa in atmosfera. Io uso la posta elettronica, i cui costi-benefici possono giustificarla. Qualunque tecnologia inquina, perché ha bisogno di elettricità. Se li usiamo in modo ragionato i costi sono inferiori dei benefici, se riteniamo che tutto sia gratis e li usiamo in modo smodato, ecco che la tecnologia viene vanificata dallo stupido uso della tecnologia››.
Incuriosito, mi misi subito ad approfondire la questione e incappai in un’altra affermazione dello stesso Ministro, pronunciata alcune settimane prima di quell’intervista, in cui aveva precisato meglio il concetto. ‹‹La digitalizzazione è una tecnologia fantastica se usata in modo intelligente ma anch’essa non è gratis energeticamente: si stima produca circa il 4 per cento della CO2 totale, gli aerei fanno il 2 per cento.»
La stima è riferibile quindi a tutto il settore del digitale e non solo ai social network, comprendendo anche quindi le reti di telecomunicazioni. Sono dati comunque molto interessanti e, probabilmente, disorientanti per chi come me, aveva sempre intravisto, nella digitalizzazione una soluzione sostenibile alle nostre dinamiche quotidiane.
In realtà, non sempre è così.
Infatti, al di là dei consumi di energia elettrica, attesi senza stupore da ognuno di noi e facilmente riscontrabili nelle bollette, i dispositivi digitali connessi ad Internet producono dei consumi di ben altro tenore. L’intero traffico che viaggia su Internet, composto da dati che sono stati acquisiti, immagazzinati, elaborati nei Data Center, in cui vengono creati servizi digitali che usiamo in remoto, consuma enormi quantità di energia elettrica.
Nel nostro immaginario collettivo, il «Cloud» è una nuvola eterea, che unisce il mondo. In realtà si tratta di un sistema globale in continuo movimento, ma non è uno spazio fatto di vapore e onde radio dove tutto funziona magicamente. Il cloud è una infrastruttura fisica allocata in specifiche località, composta da fibre ottiche, satelliti, routers, cavi sul fondo dell’oceano, enormi centri di elaborazione con schiere di computer, che necessita di inimmaginabili quantità di energia e sistemi di raffreddamento. Abbiamo già parlato in un precedente articolo, dell’enorme quantità di acqua necessaria per produrre i semiconduttori, ovvero i microchip che stanno alla base di ogni dispositivo elettronico. (link all’articolo)
Questi consumi non sono né noti né visibili dall’utente finale, che paga invece agli operatori telefonici i Gigabyte di traffico, e ai fornitori di contenuti, l’abbonamento o l’acquisto di film, serie TV e altro. È facilmente deducibile pertanto che una vita connessa ha un incessante bisogno di energia e a consumarla sono soprattutto i Data Center.
Greenpeaece nel 2017 ha pubblicato un report in cui analizza l’impatto energetico dei grandi operatori di Data Center. Le operazioni di Apple negli Usa utilizzano energia pulita per l’83% delle volte. Facebook per il 67%, Google il 56%, Microsoft il 32%, Adobe 23%, Oracle 8%. Amazon invece sta estendendo le proprie attività in aree geografiche in cui sono utilizzate prevalentemente energie sporche che dichiara di bilanciare acquistando crediti di compensazione.
La pandemia Covid-19 ha tra l’altro stravolto enormemente gli stili di vita di tutto il mondo, trasferendo interi segmenti di quotidianità su Internet. Dallo smart working, alla teledidattica, dall’e-commerce all’home banking, dalle video conferenze, ai webinar per presentare i libri ed eventi culturali.
Computer, dispositivi elettronici e infrastrutture digitali consumano quantità sempre maggiori di elettricità la quale, se non proviene da fonte rinnovabile, produce emissioni di gas serra. Nel 2008 le tecnologie digitali utilizzate nelle trasmissione, ricezione ed elaborazione di dati e informazioni (ICT) hanno influito per il 2% alle emissioni globali di CO2; nel 2020 sono arrivate al 3,7% e raggiungeranno l’8,5% nel 2025, l’equivalente delle emissioni di tutti i veicoli leggeri in circolazione. Uno studio Assessing Ict global emission footprint ipotizza che nel 2040 l’impatto del digitale arriverà al 14%.
Il traffico dati ha avuto un boom con l’affermazione dell’Internet delle cose, la moltiplicazione di applicazioni come contatori intelligenti, monitoraggio sanitario videosorveglianza, trasporto e tracciamento di pacchi o risorse. L’utilizzo di smart tv è cresciuto del 1000%, quello dello smarphone del 143%. I dispositivi connessi stanno crescendo su base annua del 10%, cioè più rapidamente degli utenti Internet, che crescono del 6%.
Da non sottovalutare la produzione della criptomoneta. Secondo il New York Times, l’energia consumata per ottenere un solo bitcoin è pari a quella impiegata in due anni da una famiglia americana media, mentre una singola transazione potrebbe alimentare una casa per un mese intero. Le elaborazioni necessarie all’attività delle criptovalute avvengono in Data Center allocati in zone, come la Mongolia, che si riforniscono di energia prodotta con il carbone. Non è un caso che proprio per questi motivi, pochi giorni fa, il plurimiliardario Elon Musk abbia deciso di rinunciare ai suoi investimenti in bitcoin, causandone un crollo storico nelle quotazioni.
Il consumo di energia del ciclo di vita di questi dispositivi, dall’estrazione dei minerali rari, alla produzione, al trasporto, allo smaltimento, va sommato alla fase di riciclo, poiché l’energia necessaria per separare i metalli aumenta in funzione della complessità e della scala di miniaturizzazione.
Inevitabilmente, la progressiva digitalizzazione verso cui stiamo andando incontro, non potrà non tener conto di questi delicati aspetti ambientali. L’auspicio è che possa rappresentare un impegno da approfondire in sede di G20, stabilendo regolamentazioni quanto più uniformi possibili, per le attività dei principali players del web. Anche gli stili di vita individuali potrebbero aiutare, cercando di assumere comportamenti che provochino il minor flusso possibile di dati, ovvero preferire l’invio di link piuttosto che di allegati pesanti o ridurre al minimo le geolocalizzazioni.
Naturalmente, sarebbero soltanto piccolissime gocce in un oceano ancora inesplorato.