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26 Giugno 2021La Disinformazione, un pericolo per le democrazie
Non a caso, nasce come tattica militare, in operazioni di intelligence
di Silvia Cegalin
L’imprescindibile uso dei mezzi comunicativi digitali emerso soprattutto in concomitanza con la pandemia da covid-19, se da una parte ha confermato l’importanza del ruolo giocato dalla tecnologia che ci ha permesso, ad esempio, di interagire con famigliari, amici e colleghi in un periodo in cui le relazioni interpersonali sono state oggetto di dure restrizioni, dall’altra ha però messo in evidenza un problema che da tempo invadeva il web: la disinformazione.
L’iperconnessione a cui siamo stati tutti, chi più chi meno, sottoposti, talvolta anche scaturita per cercare informazioni su ciò che stava succedendo, ha infatti incrementato la creazione e la diffusione di notizie non veritiere, volutamente distorte, e talvolta anche più ‘rumorose’ o ansiogene della notizia reale in sé. Se questo è successo è perché nel 2020 il nostro tempo trascorso nel web è aumentato esponenzialmente, se si aggiunge poi che questo tempo è coinciso con una crescita delle interazioni nei social, in particolare su Facebook e Twitter, ciò ha agevolato lo scorrere di informazioni, o meglio di una disinformazione travestita da informazione.
Il fenomeno della disinformazione non nasce però con il lockdown, anzi si potrebbe dire che essa sembra essere un fattore quasi connaturato a internet, e favorito dall’insorgere dei social network che, come sappiamo, hanno permesso una comunicazione virale e veloce, causando uno scambio di news significativo.
Non passa giorno, in effetti, senza che si senta pronunciare: «Questa notizia è falsa» o «Non credete a quello che avete letto», «Attenti alle bufale», alcuni non ci fanno più caso perché ormai le notizie false sono così tante che fanno quasi parte della nostra routine, altri invece ignorano l’avvertimento, eppure il tema della disinformazione, seppur talvolta trattato con leggerezza o come uno scherzo, può – ed è stato in grado – di sovvertire le dinamiche democratiche, costruendo una percezione distorta che ha inevitabilmente modificato il reale.
È il 2016 l’anno che può essere consacrato come il più attivo nella formazione di fake news e che ha simbolicamente segnato un punto di partenza per la diffusione della disinformazione in rete, confermando quanto una notizia non vera abbia la capacità di alterare i fenomeni sociali; perché nel 2016 chi divenne terreno fertile per le fake news furono proprio gli USA e il Regno Unito – le due democrazie occidentali per eccellenza.
Ma prima di analizzare nel dettaglio cosa successe nel 2016, è infatti importante capire cosa siano le fake news.
Manipolare il reale: le fake news
Le fake news, come dice la parola stessa, sono notizie false create intenzionalmente per orientare o manipolare l’opinione pubblica in merito ad un argomento specifico. Facendo uso dell’inganno si tenta di deformare la percezione popolare su un determinato fatto o evento, perché, alterandone la visione generale, anche l’idea che si ha su di esso cambia (o potrebbe cambiare) e ciò porta a conseguenze che si esprimono inevitabilmente nella realtà.
Le fake news non sorgono quasi mai per un semplice errore di valutazione, in quel caso si parla di mis-information (un termine che non ha ancora trovato la traduzione corrispettiva in italiano), a spiegarlo è la ricercatrice Claire Wardle – co-fondatrice e direttrice di First Draft un’organizzazione no profit che si occupa della verifica dell’attendibilità delle notizie. La Wardle chiarisce che non tutte le informazioni errate che circolano nascono volutamente con un’intenzione malevola, in alcuni casi si formano per un fraintendimento o come variante comunicativa di un fatto reale, in questo caso si parla appunto di mis-information.
La disinformazione al contrario (che, è interessante notare, trova origine nel vocabolo russo ‘dezinformatzija’ in riferimento alla fondazione negli anni ’20 di una tattica militare avente come scopo quello di creare un ufficio di disinformazione per condurre operazioni di intelligence) costruisce e diffonde fake news a puro scopo persuasivo per dirottare eventuali prese di posizione e cambiare il pensiero della massa, specialmente in periodi di crisi o durante le elezioni.
In entrambi gli scenari, tuttavia, l’impatto sulla realtà è inevitabile, e rischia di mutare il corso degli eventi, e questo è ciò che è accaduto in Regno Unito e negli Usa nel 2016.
Il ruolo della disinformazione nelle democrazie occidentali
Il 2016 è stato l’anno del referendum sulla Brexit, ovvero quando il popolo inglese si è trovato a votare per decidere se restare o uscire dall’Europa. Il 23 giugno con il 52% passa il ‘Leave’ (l’Uscita) sostenuta dagli euroscettici dell’Ukip e dal suo leader Nigel Farage e dai conservatori e politici e pensatori di destra, tra cui l’attuale primo ministro Boris Johnson.
Studi condotti in questi anni da Reuters Institute for the Study of Journalism e l’inchiesta a firma di Maximilian Höller pubblicata in European Journal of English Studies, hanno però rilevato che, nel periodo precedente al voto, i politici in favore dell’uscita dall’Europa invadevano letteralmente i social con temi aventi come fulcro argomentativo l’immigrazione incontrollata, e su quanto i confini aperti, concessi dalle normative europee, avessero aumentato le violenze, l’instabilità economica e l’incertezza verso il futuro, oltre che aver causato una graduale perdita dei valori inglesi.
Il martellamento costante nell’esporre tematiche atte a provocare un sentimento di frustrazione e odio verso il ‘diverso’ e lo straniero, è stato il segnale che una comunicazione deviata si stava diffondendo nei social.
Il dubbio è scaturito perché dalle ricerche citate sopra è emerso che i politici a sostegno della Brexit, in particolare Farage e Johnson, nel pubblicare i loro dati (spesso faziosi e falsi) si sono affidati a troll organizzati professionalmente e da eserciti di robot automatizzati. Twitter, tra il network più usato dai due leader, è di conseguenza stato ‘occupato’ da finti profili di utenti con l’obiettivo di disinformare il popolo inglese. Inoltre nei vari media, e quindi non solo nei social, Boris Johnson ripeteva quotidianamente che l’UK doveva inviare 350 milioni di sterline a settimana all’Europa, e nonostante questa cifra fosse stata pubblicamente smentita, l’attuale Primo ministro continuava a usarla come possibile arma vincente.
A fronte di questo, appare lampante quanto una manipolazione dei dati e l’uso feroce, passatemi il termine, della disinformazione abbia causato la scelta degli inglesi di uscire dall’Europa, la Brexit perciò non può definirsi come una decisione sorta da un’analisi oggettiva dei fatti, quanto da una deformazione degli stessi.
La stessa dinamica si è ripresentata con le elezioni presidenziali statunitensi del 2016, in quanto stando ai dati rilevati dalla società specializzata in analisi computazionale Graphika, la vittoria di Donald Trump è stata influenzata dalla diffusione di fake news presenti nei social network, ed anch’esse, come nell’episodio della Brexit, sono state generate da bot automatizzati. Bot che in questo caso sono stati creati dall’azienda russa Internet Research Agency (passata alla cronaca come fabbrica dei troll) con lo scopo appunto di comunicare informazioni fasulle e infangare gli avversari di Trump.
Il principale sito di fact-checking (verifica dei fatti), Politifact, ha inoltre stimato che durante la campagna elettorale Trump abbia riferito fake news per il 70% dei casi. Anche nel contesto americano, dunque, la disinformazione ha avuto un ruolo primario nella decostruzione dei valori democratici, proiettando le scelte dei cittadini verso una direzione che in realtà esiste solo nelle trame algoritmiche del web.
Purtroppo questi non sono gli unici esempi in cui la cittadinanza democratica è stata messa a repentaglio da strategie disinformative, dal 2016 infatti si è vista una crescita esponenziale di fake news all’interno della rete, e anche l’Italia risulta esserne vittima.
Disinformazione all’Italiana
Escludendo l’infodemia prodotta dalla pandemia e da tutte quelle notizie complottiste aventi come oggetto il coronavirus, da un’indagine svolta tra la fine del 2020 e l’inizio del 2021 da Iconsulting emerge che nel nostro Paese i politici (Matteo Salvini in testa) sono tra coloro che condividono più fake news, seguiti dagli attivisti e dagli imprenditori, mentre tra gli informatori più attendibili compaiono i profili satirici, i vignettisti e, con una certa sorpresa, i blogger, con un 80% di veridicità che sfida il 56% dei politici.
Numeri confermati anche dai report della Polizia Postale e dalla Relazione annuale sulla politica dell’informazione per la sicurezza, che stimano un aumento delle fake news pari al 436% rispetto all’anno precedente. «Sono proliferate campagne di disinformazione e teorie cospirative, accompagnatesi a retoriche ultranazionaliste, xenofobe e razziste, nonché ad interventi propagandistici dagli accesi toni antisistema» (fonte: Relazione annuale). A farsi portatrice di una visione distorta è sopratutto la destra radicale che, attraverso ciò che lo studioso Matthew Loveless definisce ‘arma emozionale’, cerca di mutare gli umori e condizionare il voto dei cittadini, cambiando così gli assetti pluralisti e mettendo a rischio le istituzioni.
Per questo prevenire la disinformazione è un compito fondamentale in cui piattaforme e governi devono, o almeno dovrebbero, essere coinvolti allo stesso modo. Attualmente invece, sia in Europa che in Italia, una collaborazione tra entrambe le parti sembra essere un miraggio. Nel recente libro Libertà vigilata. La lotta per il controllo di internet, David Kaye evidenzia proprio la mancata regolamentazione che potrebbe prevenire e combattere la disinformazione, perché ad oggi le responsabilità ricadono quasi esclusivamente sulle compagnie multinazionali che, come si evince dalle loro pratiche limitate al fact-checking condotte su base algoritmica, non appaiono molto interessate a contrastare il fenomeno delle fake news.
Eclatante a proposito è la convinzione di Mark Zuckerberg che sostiene che il 99% dell’informazione che appare su Facebook sia autentica, stima che a fronte degli esempi visti in precedenza non può essere neanche lontanamente vera, in questo caso quindi lo stesso Zuckerberg si è trasformato in disinformatore, confermandoci quanto insidiosa e nascosta possa essere una fake news.
I principi democratici sono troppo importanti per poter essere messi in pericolo dalla disinformazione, chi scrive, di conseguenza, auspica che quanto prima i governi prendano provvedimenti verso chi, con intenzioni ingannevoli, cerca di descriverci un mondo che non esiste.