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30 Giugno 2021“Nos están matando”: il grido del popolo che vuole cambiare la Colombia
di Coraline Gangai
Dal 28 aprile gli occhi di tutto il mondo sono puntati sulle violente proteste che hanno infiammato, e continuano ad infiammare, la Colombia.
La causa scatenante è stata duplice: da un lato le pesanti riforme fiscali, dall’altro l’innalzamento dell’IVA sui prodotti alimentari e l’imposizione delle tasse sui redditi del ceto medio.
Predisposte dal Presidente Iván Duque Márquez, sin dall’inizio sono state duramente criticate dal popolo colombiano che si è fermamente opposto, scegliendo di scendere coraggiosamente nelle piazze delle principali città colombiane e dando vita a quello che è stato definito il Paro Nacional.
Iniziate in modo pacifico, le proteste si sono ben presto trasformate in violenti scontri con la polizia che hanno causato morti, feriti e sparizioni forzate. Giovani, donne, uomini e anziani si sono riuniti sotto i colori della bandiera colombiana, e ai collettivi di protesta nati in tutto il paese, con l’obiettivo di far sentire la propria voce e non piegarsi alle imposizioni e alle violenze esercitate dalla Policia Nacional e dalla ESMAD (Squadre mobili antisommossa della Polizia di Stato).
La violazione dei diritti umani: i dati del rapporto di Temblores
Sui social si è ben presto diffuso un hashtag che è diventato il simbolo di queste proteste, #Nosestánmatando, sotto il quale sono confluite migliaia di immagini che ritraevano feriti, video degli scontri tra civili e polizia, negozi messi a ferro e a fuoco e appelli di persone che chiedevano aiuto, invocando l’intervento della Corte Europea dei diritti dell’uomo.
Come si evince dalle immagini e dai racconti di chi quell’orrore lo ha vissuto sulla propria pelle, il costo in termini umani è stato molto alto.
A testimoniarlo anche i dati riportati nel comunicato dell’8 giugno diffuso dalla ONG Temblores che, insieme a Paiis (Programa de Acción por la Igualdad y la Inclusión Social) e Indepaz, ha raccolto le voci dei civili coinvolti e feriti negli scontri e richiesto l’intervento della Commissione interamericana per i Diritti Umani (CIDH) per la sistematica violazione dei diritti umani e dell’uso indiscriminato della forza da parte delle forze dell’ordine.
Nel documento, in cui sono incluse le testimonianze di GRITA (piattaforma che cerca di facilitare la segnalazione della violenza della polizia al fine di contribuire alla sua eliminazione), non solo vengono riportati i dati relativi alle violenze commesse (fisiche, sessuali e torture) ma anche le armi utilizzate. Tra queste: pistole stordenti, gas lacrimogeni e la Venom, potente arma in grado di lanciare contemporaneamente proiettili multipli e con una capacità di 30 cartucce.
Le cifre preoccupanti fanno riferimento al periodo che va dal 28 aprile, data di inizio delle proteste, al 31 maggio e forniscono un quadro chiaro ed esaustivo della gravità della situazione interna al Paese sudamericano.
In questo periodo di tempo il totale delle vittime registrato è stato di 3798, così ripartite: 1248 vittime di violenza fisica, 4167 omicidi presumibilmente commessi da membri delle forze di sicurezza, 1649 detenzioni arbitrarie di manifestanti, 705 interventi violenti nel contesto delle proteste pacifiche, 65 casi di traumi oculari, 187 vittime di colpi di arma da fuoco, 25 casi di violenza sessuale e 6 di genere.
Questi numeri, sottolinea la ONG, fanno riferimento soltanto ai casi registrati. Ce ne sono poi molti altri, non denunciati e rimasti taciuti dai soggetti coinvolti per paura di subire ritorsioni da parte della ESMAD.
Intanto le proteste non si arrestano e il numero di morti e feriti continua ad aumentare.
Voci dalla Colombia: intervista ad Alfredo Mondragón Garzón, attivista colombiano che ha preso parte al Paro Nacional nella città di Cali
Sebbene il Paro Nacional abbia coperto quasi interamente il territorio colombiano, le aree chiave in cui gli scontri sono stati più violenti sono state Cali e Bogotà.
Uno dei punti di riferimento per i manifestanti a Cali è stato Alfredo Mondragón Garzón, leader socialista che ha preso parte a numerose manifestazioni, fornendo supporto e raccogliendo le testimonianze delle violenze commesse sui civili dagli agenti della polizia. L’interesse per i diritti umani lo coltiva sin da giovane quando, all’età di 17 anni, aderisce al SENA, l’istituzione pubblica colombiana finalizzata a sviluppare programmi di formazione professionale per la forza lavoro come mezzo per aumentare la competitività delle imprese e favorire l’occupazione giovanile, e partecipa alla fondazione del COES, il Comitato degli studenti e dei laureati del SENA.
Alfredo si definisce come uno dei promotori delle battaglie sociali scoppiate nelle regione e nel Paese e, avendolo vissuto in prima persona, ci ha spiegato come il Paro Nacional sia stato indetto dal Comitato Nazionale dello Sciopero il 28 aprile.
La gente ha reagito in modo favorevole all’iniziativa fin dal principio, essendo nata con presupposti pacifici poi sfociati in violenze, come racconta Mondragón: “A partire dal 28 aprile c’è stata un’impressionante affluenza di cittadini che ha travolto la base sindacale che si trova nel Comitato Nazionale di Sciopero, e si è configurata in quella che è stata definita da alcuni come un’esplosione sociale. Questo è un punto chiave per comprendere la genesi delle proteste.
Quando ho iniziato a notare l’affluenza di massa dei colombiani nelle piazze ho deciso di riprendere il tutto e di postare i video sul mio account Facebook. La gente ha iniziato a commentare quelle immagini intrise di violenza, a condividerle sui propri social e a darmi il suo appoggio, scrivendomi che quello che stavo facendo era importante perché bisognava che se ne parlasse e che la stampa, e tutto il mondo, sapessero ciò che stava accadendo nel nostro paese”.
Una delle cause principali che viene attribuita allo scoppio delle proteste è la pesante riforma tributaria imposta dal Presidente Duque, a cui si sono poi aggiunte altre riforme in corso nel Congresso della Repubblica su iniziativa del governo nazionale e dei partiti al governo. I colombiani sono arrivati ad un punto di esasperazione tale che il loro malcontento è improvvisamente esploso: “Nel nostro paese si parla tanto di democrazia, ma non esiste, è una chimera. La gente lo sa ed è anche per questa ragione che è scesa nelle piazze a chiedere che la si rispettasse e che si ponesse fine al maltrattamento della società, all’emarginazione dei più fragili e alla cessazione dei privilegi delle élite, l’unica classe sociale a ricevere benefici da parte del governo”.
Particolarmente attivo nella zona della Valle del Cauca, il dipartimento con la maggiore estensione geografica e che racchiude al suo interno Cali, Alfredo ha presenziato anche in un’altra zona che ha assunto un’importanza cruciale durante il Paro, Sameco: “Sameco, zona a nord di Cali, rappresenta un punto cruciale per la circolazione delle merci verso il nord ed è una delle poche zone industriali rimaste nel nostro paese. In questo punto si concentra un importante afflusso di lavoratori ed è stato anche quello in cui inizialmente si è verificata la brutale aggressione da parte della polizia, che ha cercato di impedire alla gente di continuare a manifestare.
Il giorno seguente, il 29, in tutto il paese c’era il dubbio se continuare lo sciopero oppure no. Alle sei di mattina la polizia della ESMAD ha iniziato un pesante attacco contro i civili, lanciando gas lacrimogeni e uno di questi è esploso vicino al mio viso. Se non fossi riuscito a coprirlo con le mie mani probabilmente a quest’ora sarei senza un’occhio. Inizia quindi un vero e proprio assalto. Riesco a riprendere con il mio cellulare la brutalità degli agenti di polizia e a trasmetterla in diretta sul mio account Facebook. Il mio gesto scatena un’ondata di indignazione generale tale da spingere i colombiani ad uscire nei diversi punti in cui si erano concentrati i manifestanti il giorno prima e a creare punti d’incontro per la gente che si trovava lì”.
Oltre alla riforma tributaria e all’assenza di democrazia, ci sono altre ragioni alla base del malcontento popolare. Il leader socialista sostiene sia più corretto parlare di multicausalità:“Credo che non sia possibile identificare una sola, unica e determinante causa delle proteste. In primo luogo perché nel paese è esplosa una vera e propria mobilitazione di rifiuto nei confronti dell’Uribismo (movimento politico colombiano basato sul pensiero dell’ex presidente Alvaro Uribe Velez, il liberalismo economico e il populismo), progetto politico in disgrazia che ha favorito le élite, l’ascesa al potere di Duque e che ha portato sull’orlo del baratro il nostro paese. Il governo ha infatti un grosso debito sociale, oltre che economico, nei confronti della popolazione.
La Colombia è costituita in maggioranza da persone appartenenti alla classe media e ai settori popolari, privi di garanzie lavorative e di poter mantenere le loro iniziative produttive. La crescita del PIL non ha avuto alcun riflesso sulla qualità della vita e si è innescata una situazione di povertà particolarmente opprimente. A confermarlo il fatto che siamo in un paese che è stato deindustrializzato e de-agrarizzato, la produzione è stata trasferita al di fuori e molte persone hanno perso il proprio posto di lavoro. A ciò si sono aggiunte le pesanti misure restrittive applicate a seguito dello scoppio della pandemia, che non hanno fatto altro che peggiorare la situazione di quasi la metà della popolazione.
Cali è un esempio di questo peggioramento repentino. Lo confermano i dati forniti dal nuovo governo, i quali affermano che durante il 2020 i poveri del paese hanno perso il 25% del proprio reddito, mentre a Cali il 50% dei poveri ha perso il 50% del suo reddito. Ciò significa che a Cali una persona è classificata come povera quando ha un reddito inferiore a 350 mila pesos al mese (circa 50 dollari). Come si fa a vivere con 50 dollari al mese? Una follia!
Nel paese ha quindi iniziato a diffondersi finalmente una profonda indignazione nei confronti di quei cordoni di miseria di giovani rimasti soli, senza mezzi, disoccupati e che hanno scelto la protesta come ultima arma per chiedere un miglioramento delle loro condizioni di vita”.
Nel Paro Nacional, oltre a singole persone, sono convogliate anche reti sociali di protesta:“Tra i settori scesi in campo durante le proteste c’è stato quello dei mercati popolari. Si è voluto attribuire la colpa della penuria e dell’aumento dei prezzi dei prodotti allo sciopero, ovvero quando i ragazzi si trovavano nei blocchi di protesta. Poi, però, si è scoperto che la carenza dei prodotti e l’innalzamento dei prezzi avevano continuato a crescere anche dopo che erano stati attivati i corridoi umanitari, che avrebbero dovuto agevolare la circolazione dei beni di prima necessità. Io sono stato il promotore del primo corridoio umanitario attivato a Sameco. Lo abbiamo promosso in un’assemblea popolare ed è stato attivato anche in altre parti del paese. Quello che è accaduto dopo è che la gente ha iniziato ad invadere le strade con cartelloni su cui erano riportati slogan anti-uribismo che recitavano ‘Cali è anti-Uribista’, ‘Medellín è anti-Uribista’, ecc… e a riappropriarsi di quegli spazi utilizzati dalla polizia come centri di tortura, trasformandoli in punti di ritrovo culturali, come biblioteche, e sociali, come gli spazi adibiti al lutto delle madri dei giovani uccisi in quello che è stato chiamato Paso del aguante, ovvero il passaggio della resistenza. In realtà i collettivi di protesta in Colombia sono davvero pochi e sono nati solo in seguito allo scoppio delle tensioni”. Nell’immaginario comune la Colombia è considerata come uno dei paesi più violenti dell’America Latina e la violenza esercitata dalla polizia, con l’autorizzazione del governo, è una piaga che affligge il paese da ormai molto tempo.
Alfredo sostiene che la violenza abbia trovato il suo terreno fertile proprio nell’Uribismo, che l’ha legittimata e rafforzata: “ L’uribismo si impone con grande forza nel nostro paese e arriva a seguito di una grande frustrazione nazionale rappresentata dagli accordi del Caguán, processo di pace condotto tra il 1998 e il 2002, poi fallito, che prevedeva la creazione di una zona smilitarizzata in cui si sarebbero dovuti svolgere i colloqui con le FARC (Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia) e altri gruppi di guerriglieri e la sottoscrizione di un’agenda condivisa intorno alle riforme economiche, politiche e agrarie da adottare e alla nuova disciplina in termini di diritti umani e internazionali. Il governo statale aveva bisogno che le FARC si sentissero forti e simulò un negoziato di pace con loro, perché sapeva che da sole non avrebbero mai avuto la forza di rovesciare militarmente lo Stato.
Lo scenario di guerra, rapimenti, scontri a fuoco e bombe, è servito per dominare l’opinione pubblica e il rifiuto delle FARC è diventato lo scenario perfetto per l’uribismo e per generare coesione all’interno del paese sulla base del fatto che c’era un nemico interno da combattere. La popolazione ha quindi abbracciato questa iniziativa, rassicurata dal fatto che il governo avesse imposto controlli militari nelle zone calde. Parallelamente si verificavano massacri dei civili che la gente non vedeva e di cui non sapeva nulla. Si cominciò a parlare di più di 6402 giovani dei settori popolari, o contadini, assassinati dalla polizia perché travestiti da guerriglieri dopo scontri a fuoco. Siccome la gente era ossessionata dall’idea di un nemico interno da combattere, iniziò a vedere Uribe come un redentore e ad applaudirne le gesta perché aveva cercato di porre fine alla guerriglia, facendo credere al popolo di essere stato salvato e liberato grazie al trionfo militare dell’esercito contro il nemico.
Il popolo si sta accorgendo solo ora che in realtà l’uribismo ha prodotto una vera e propria catastrofe in termini materiali, economici, sociali e di sicurezza e la polizia risponde a questa logica, vedendo chiunque protesti contro lo Stato come un ‘nemico’.
José Miguel Vivanco, Direttore dello Human Rights Watch, in un suo tweet ha affermato che almeno 20 omicidi erano stati commessi dalla polizia. Ci sono stati casi molto gravi come il giovane di Puerto Resistencia ucciso con un colpo di pistola alla testa da parte della polizia, o il corpo del giovane trovato bruciato nella Dóllar City di Siloé dopo essere stato arrestato, le centinaia di ragazze che hanno denunciato le violenze sessuali subite durante il fermo, e tanto altro… Naturalmente ciò ha provocato un’ondata di indignazione in tutto il paese e tanto dolore.
Anche io sono stato vittima della violenza militare, il giorno dell’inizio delle proteste a Sameco. Sono stato arrestato e caricato su una camionetta della polizia perché stavo filmando come stavano aggredendo un giovane. Mi hanno fermato, consegnato a due poliziotti, sbattuto la testa contro il marciapiede in pieno giorno, preso a calci, dato scosse elettriche su tutto il corpo e caricato su un mezzo non identificato insieme ad altri sei ragazzi. Per tutto il viaggio non abbiamo saputo dove ci stessero portando. Per fortuna uno dei ragazzi che era a bordo con me è riuscito a nascondere un cellulare e a chiamare il Senatore Wilson Arias, che è riuscito a localizzarci e liberarci. Soltanto in un secondo momento abbiamo scoperto che la destinazione era un centro di detenzione e tortura. Siamo stati arrestati da poliziotti in borghese, senza numero identificativo né distintivo e trattenuti contro la nostra volontà, senza sapere nemmeno dove fossimo diretti. Il trattamento che ci è stato riservato lo hanno ricevuto anche tanti altri giovani, di cui è stata denunciata la scomparsa ma che non sono mai più ritornati a casa. A noi sarebbe potuta accadere la stessa cosa”.
Oltre allo strascico di violenze, morti e feriti, la protesta ha portato con sé importanti risultati positivi e risvolti inaspettati: “Uno dei più importanti è stato sicuramente quello di riuscire ad ottenere il ritiro della riforma fiscale che stava mettendo in ginocchio la classe media, i settori popolari e a classe operaia. Ad esso si sono affiancati il crescente anti-Uribismo, che si sta diffondendo tra il popolo colombiano che vuole togliere la maschera di finta democrazia indossata per anni dallo Stato, ma che in realtà non ha fatto altro che criminalizzare la partecipazione dei cittadini, le dimissioni del Ministro delle Finanze Alberto Carrasquilla e la caduta della riforma sanitaria. Oggi il popolo è desideroso di andare incontro a nuovi cambiamenti e penso che veda le urne sotto questa nuova luce”.
La Colombia di ieri e quella di oggi, messe a confronto, sembrano diverse sotto alcuni aspetti. Uno di questi è che nella Colombia post – proteste il sentimento prevalente è sicuramente quello di paura. Sono molti i colombiani che hanno ricevuto minacce e vivono nel terrore di poter subire nuove ritorsioni, come spiega Alfredo: “La gente ha paura e molti sono stati minacciati, me compreso. Questa paura che proviamo oggi è però il frutto delle nostre conquiste, come il ritiro della riforma fiscale o l’aver cambiato la precedente riforma sanitaria, ritenuta inadeguata perché a beneficio solo delle élite. Se il popolo non trasforma la sua determinazione civica e le sue intenzioni in volontà di cambiare il paese domani, quando la calma si sarà ristabilita, quella riforma fiscale e sanitaria per il cui ritiro ci siamo tanto battuti verranno reintrodotte. Penso che vedremo se il paese è definitivamente cambiato soltanto nei prossimi mesi, quando ci saranno le elezioni. Sono inoltre fermamente convinto che la Comunità internazionale debba sorvegliare sui processi elettorali in Colombia, perché non ci sono garanzie di elezioni libere e trasparenti. Questa dovrebbe essere una delle priorità. Oggi il popolo colombiano si è reso conto del potere che ha. C’è uno spirito di trasformazione e di cambiamento molto forte che sta attraversando tutto il paese”.
La popolazione sembra essersi svegliata dal torpore e decisa a cambiare le sorti del proprio Paese. Per farlo, il passo successivo da compiere è quello di fare scelte responsabili e andare a votare alle prossime elezioni del 2022. Una partecipazione politica attiva, secondo Mondragón, è quindi la chiave per far sì che si possa parlare di un futuro migliore per la Colombia: “Il popolo colombiano da sempre è poco attivo dal punto di vista della partecipazione politica e non crede nel forte potere decisivo che ha nelle sue mani. Il risveglio dal torpore è una cosa accaduta solo qualche mese fa in seguito allo scoppio delle proteste. I mesi futuri saranno molto importanti per iniziare quella che alcuni hanno definito la ‘Conversazione nazionale’, ossia quando il popolo comincerà a far sentire la propria voce e a farsi un’idea precisa di ciò che vuole per il proprio Paese, in modo da arrivare alle urne non con un vuoto in testa ma convinto e con delle proposte. Questa è la sfida che ci aspetta per il futuro. La popolazione deve iniziare un processo di conversazione nei quartieri, nelle case e nelle famiglie in modo che si arrivi alle urne consapevoli delle proprie scelte”.