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Il nostro viaggio fuori dalle porte chiuse degli impianti sportivi
di Dania Ceragioli
Correva l’anno 2009, quando il Giappone presentava con la città di Tokyo la sua candidatura ai giochi olimpici, che si sarebbero tenuti nel 2016. Fra le quattro contendenti finali a spuntarla quell’anno fu Rio De Janeiro, con la proclamazione ufficiale tenutasi il 2 ottobre dello stesso anno a Copenaghen. I giapponesi, seppure sconfitti in questa circostanza, ritentarono la stessa candidatura nel 2013 e, in una sessione plenaria del Comitato Olimpico conclusasi il 7 settembre a Buenos Aires, venne finalmente designata la città di Tokyo come la capitale destinata a ospitare i giochi olimpici per l’anno 2020, per la seconda volta quindi dopo quelli disputati nel 1964. Ma in un comunicato del 24 marzo 2020, il comitato organizzatore annunciava ufficialmente che a causa della pandemia di Covid-19 in atto, sarebbero stati disputati nel 2021. Sebbene diverse edizioni dei giochi fossero state cancellate in passato a causa delle guerre, questi ultimi sono stati i primi giochi a essere rinviati a una data successiva. I Giochi della XXXII Olimpiade, iniziati ufficialmente il 23 luglio si svolgeranno fino al giorno 8 agosto a porte chiuse.
Mentre i mass media ci mostrano le meraviglie che accadono all’interno di quelle porte chiuse, noi abbiamo scelto di raccontare anche che cosa c’è fuori.
Il fascino indiscreto del Giappone
Arrivando a Tokyo, non possiamo fare a meno di notare le numerose sale da gioco d’azzardo che popolano la città. Il gioco più famoso fra tutti è il pachinko, ideato sul finire della seconda guerra mondiale. Non richiede particolari abilità, occorre semplicemente ruotare una manopola per calibrare la potenza alle palline d’acciaio, che vengono sparate automaticamente. E’ attraverso questo gioco e in prospettiva rovesciata, in cui le palline diveniamo noi, che possiamo interpretare le nostre emozioni in relazione a questo Paese, fatto di opposti, di tradizione e modernità, spiritualità e tecnologie avanzate, che convivono in sinergia sviluppando sul viaggiatore un fascino indiscreto. Proprio come queste palline del gioco, ci troviamo sballottati in un universo tridimensionale, fatto di metropolitane che si sovrappongono e strade che si intersecano fra loro. Tra ideogrammi e luci al neon rischiamo di vagare senza un presente, e con lo sguardo perso, come il protagonista del film “Lost in traslation”.
Ma questo vortice spesso dura il tempo di qualche passo, per lasciare spazio alla meraviglia. C’è sempre un tempio shintoista nascosto, un boschetto di bambù, una pagoda, un giardino segreto con i pini finemente sagomati. In un silenzio quasi irreale, in città come Tokyo che possono contenere fino a trentasette milioni di abitanti, c’è paradossalmente poco rumore. Il silenzio, come il concetto di vuoto, fa parte della ricerca spirituale di ogni giapponese, condizionato a vivere in quadrature ristrette, a condividere mezzi di trasporto in cui spesso, i soli posti disponibili sono quelli in piedi. Fermarsi a osservare le pietre o i petali di un ciliegio in fiore che cadono delicatamente sull’acqua, diventa un evento nazionale. Dalle enormi distese di asfalto di Tokyo, dove il traffico perenne seppure lento è ordinato, dai suoi quartieri alveare, costruiti con materiali leggeri e trasportabili, distesi su piani orizzontali per non offrire il fianco ai terremoti, è possibile prendere uno shinkansen (un treno ad alta velocità) e arrivare a Kyoto in un battito d’ali. Le lettere contenute dai due nomi sono le stesse, ma le suggestioni tanto diverse.
Quest’ultima città durante la guerra venne risparmiata, soltanto bombardata e non interamente distrutta come la capitale. Grazie a questo ha potuto mantenere isole protette del suo passato. Antichi quartieri in legno come quello di Gion, dove mistero e incanto si fondono fra loro, generando creature dalla pelle di luna – le geisha – che all’imbrunire, scortate da file interminabili di lanterne di carta di riso, escono per deliziare con le loro arti (la danza e il canto), solo pochi e facoltosi uomini d’affari che potranno avere il privilegio della loro compagnia. Fasciate dai loro eleganti Kimono, è possibile riuscire a sentire il suono delle trame delle loro sete finemente lavorate, prima ancora di riuscire a vederle.
Nara, Takayama, Hiroshima, Osaka, tutte città che contengono una storia. Alcune ci rimandano a splendori del passato, altre a eventi drammatici e mai dimenticati. In questi mondi paralleli popolati dai Manga, i fumetti giapponesi, dai lottatori di Sumo, dai Tamagochi, i cuccioli virtuali da accudire, ai love hotel, tutto viene reso possibile. Rifugiarsi in una fantasia trasversale, cercando di smaltire le frustrazioni dei ritmi di vita sempre più stancanti è talvolta necessario. I giapponesi sono fra i più instancabili lavoratori e dormono pochissimo, non schiacciano pisolini: fanno inemuri. Una pratica diffusa che consiste nell’addormentarsi in pubblico. Nessuno sembra farci caso, anzi è ufficialmente riconosciuta come un segno d’onore, la prova per aver lavorato più di quanto consentito. Il Giappone è mistero, anche in quella forma di conformismo che è il saluto. Non rispondete mai a un inchino, potreste impiegare l’intera giornata a salutare il vostro interlocutore, che vorrà essere l’ultimo a mostrarsi in questa eloquente inclinazione del busto. La filosofia di vita di questo popolo che sta riscoprendo con nostalgia un mondo distante, pur rivolto al futuro, sembra rispecchiarsi nella bellezza di questa haiku, o componimento dell’anima, del poeta Mizuta Masahide: “Il tetto si è bruciato ora posso vedere la luna”.