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di Giuseppe Greco
Ogniqualvolta si sente parlare di “autunno caldo”, la memoria corre agli epocali avvenimenti del 1969, quando grazie alle sollevazioni operaie e studentesche e alle lotte sindacali si aprì una stagione irripetibile di conquiste sociali in ambito lavorativo; le prime, dopo il ventennio fascista e due decenni di sfruttamento istituzionalizzato. Non a caso, è durante questo periodo che prende vita lo Statuto dei Lavoratori.
L’autunno che ci aspetta non sarà uguale a quello ora citato, nulla ci accomuna a quel momento: non la politica, non il senso di collettività, non il sindacalismo. Tutto è cambiato, a parte un elemento fondamentale: la necessità di salvaguardare i diritti dei lavoratori. È questa urgenza che, lo scorso 18 settembre, ha convinto migliaia di manifestanti, provenienti da tutta Italia, a prendere parte al corteo organizzato dalla Rsu e dal Collettivo di fabbrica della GKN Driveline, dietro l’ormai celebre striscione recante la scritta “Insorgiamo”.
Le previsioni ottimistiche sulla ripartenza economica e produttiva italiana post-Covid, apparse su svariate fonti di informazione, si scontrano evidentemente con un’altra realtà, molto più incerta, fatta di ricorsi al licenziamento di massa, aumento sostanziale del numero dei nuovi poveri e forti instabilità socio-economiche. Raramente, del resto, prospettive rosee di ripresa aziendale sposano un effettivo riscatto della condizione dei lavoratori. È opportuno, quindi, prima di tirare sospiri di sollievo affrettati, sapere chi riguardi questa ripresa e come effettivamente giovi alla parte di popolazione che ha sofferto economicamente l’evento pandemico.
I tavoli di crisi aperti e la fine del blocco dei licenziamenti del 31 ottobre per tessile e aziende in cassa integrazione
L’autunno, quindi, mostrerà l’esatta quantità dei licenziati e la condizione in cui verte il mondo del lavoro, e non solo; intanto, come si è visto dal corteo di Firenze e dall’adesione massiccia allo sciopero generale dell’11 ottobre, si preannuncia una stagione di mobilitazioni. Vi sono 87 tavoli aperti al ministero dello Sviluppo economico, di cui ben 57 sono di crisi. Numeri che non sembrano allarmanti, confrontati con i dati degli scorsi anni (a dicembre 2019 erano circa 150), ma che sono racchiusi all’interno di un quadro più preoccupante e molto meno prevedibile per i lavoratori (80.000 sarebbero i posti a rischio, ma le stime sono variabili). A ciò si aggiunga che a breve, il 31 di ottobre, cadrà il blocco anche per il tessile e per le aziende che usufruiscono della cassa integrazione, che sia ordinaria, straordinaria o in deroga. La campagna massiccia di licenziamenti inizia il 14 giugno, due settimane prima dell’effettivo sblocco e nonostante, come riporta Francesco Costa su il Post “In vista dello sblocco, a palazzo Chigi era stato condiviso un accordo tra sindacati confederali e Confindustria, firmato anche dal presidente del Consiglio Mario Draghi e dal ministro del Lavoro Andrea Orlando, che impegnava le aziende a esaurire tutti gli ammortizzatori sociali a disposizione prima di procedere alla risoluzione dei rapporti di lavoro”. La Whirpool, già nota per questioni similari, con due settimane di anticipo, annuncia la volontà di licenziare 340 operai dello stabilimento di Napoli, rifiutando, in seguito, l’estensione della Cig proposta dal ministero dello Sviluppo Economico. Il 30 giugno, 24 ore prima dell’effettivo sblocco, la Henkel chiude definitivamente il suo stabilimento a Lomazzo (Como), lasciando senza posto di lavoro 81 dipendenti.
Dal 1° luglio la situazione non fa che peggiorare. Con una email, la Gianetti Ruote, comunica a 151 lavoratori la chiusura dello stabilimento; la stessa azienda il giorno dopo (il 3 luglio) estenderà il medesimo provvedimento ad un altro sito di produzione, a Ceriano Laghetto (Monza), licenziando 152 dipendenti. Il 9 luglio è il giorno dei 422 della Gkn di Firenze, i quali ricevono, come nel caso della Gianetti, una email riguardante la cessazione delle attività produttive, per una più redditizia delocalizzazione. A Bentivoglio (Bologna), il 31 luglio, la comunicazione dell’interruzione delle attività del sito di produzione della Logista Italia Spa, avviene tramite un messaggio WhatsApp multiplo, recapitato a circa 100 persone.
Sarebbero tante altre le situazioni tragicamente simili da citare (La Abb a Marostica, chiusura e delocalizzazione in Bulgaria, la Timken di Villa Carcina, la San Marco Industrial di Atessa sono solo alcuni esempi); senza contare i licenziamenti passati in sordina per questioni numeriche o di rilevanza economica. L’impressione è che chi dovrebbe proteggere i diritti dei lavoratori, sindacati confederali e Ministero del Lavoro in primis, abbia ormai accettato una condizione di immobilità, di impotenza oppositiva alla pressione del mercato e delle sue oscillazioni. Il “padrone”, com’era in uso chiamarlo una volta, è sempre più di frequente un’entità liquida, inafferrabile: fondi di investimento, per citare un esempio calzante (sia la GKN che la Gianetti Ruote, appartenevano a fondi di investimento internazionali) i cui investitori, in questo genere di situazioni, sono liberi di dirottare in avventure più redditizie il loro denaro. Nessuno, nonostante il lavoro sia in mutamento da decenni e le crisi si susseguano, si è fatto trovare pronto. Il sindacalismo è uscito troppo malconcio dalle svolte tecnologiche e politico-ideologiche degli anni ’80 ed è stato colto impreparato anche dall’evento pandemico.
È sempre più complesso ripensare il lavoro all’interno di una realtà, come è la nostra, in cui esso deve essere, troppo spesso, precarizzato e sotto retribuito per resistere al principio di competizione e salvaguardare la libertà d’impresa. I lavoratori, come testimoniano le recenti mobilitazioni, sembrano gli unici ad avere compreso l’importanza umana, oltre che economica, delle proprie rivendicazioni ed i soli ad avere ancora qualcosa di utile da dire in difesa dei loro e dei nostri diritti.