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26 Ottobre 2021Reddito di libertà e i bisogni delle donne vittime di violenza, raccontati da Senza Veli sulla Lingua
di Dania Ceragioli
La nostra indagine sul mondo a sostegno delle donne vittime di violenza comincia oggi, attraverso l’incontro con uno dei centri in prima linea a sostegno delle donne e dei loro figli. Abbiamo intervistato la giornalista Patrizia Scotto di Santolo, vicepresidente e fondatrice assieme all’avvocato anglo-italo-yemenita Ebla Ahmed e all’imprenditrice Elisa Buonanno, dell’associazione Senza Veli sulla Lingua1, nata nel 2013.
La nostra prima domanda riguarda il reddito di libertà, ossia l’aiuto che, stabilito nella misura massima di euro 400 al mese per massimo di 12 mensilità, è destinato alle donne vittime di violenza, sole o con figli minori, seguite dai centri antiviolenza riconosciuti dalle regioni e dai servizi sociali nei percorsi di fuoriuscita dalla violenza, per contribuire a sostenerne l’autonomia2.
Con la pubblicazione in Gazzetta, il 20 luglio 2020, è stato reso esecutivo il reddito di libertà per le donne vittime di violenza.
Questo reddito non risulta al momento ancora assegnato. Avete qualche informazione al riguardo?
La nostra associazione, attraverso le sue assistite, ha presentato tre domande utili all’ottenimento del reddito di libertà. Alla data odierna e nonostante i ripetuti solleciti, non ci risulta ancora alcun pagamento. Con molta probabilità esistono problematiche tecniche, le disposizioni legate alla liquidazione di tale reddito non sono ancora state chiarite e spesso chi deve evadere le richieste non è sufficientemente preparato.
Quali sono gli aiuti in termini economici che vengono erogati attualmente? Ci sono stati incrementi rispetto al passato?
Le donne vittime di violenza non ricevono e non hanno mai ottenuto aiuti economici di alcun genere.
Spesso chi subisce violenza non è economicamente indipendente, quanto l’indigenza può incidere?
L’indigenza è sicuramente un fattore invalidante. Le donne prive di qualsiasi sostentamento economico spesso non riescono ad abbandonare i partner seppure violenti. La paura di non avere più una casa per se stesse e soprattutto per i figli rimane prevalente, anche rispetto a quella della loro incolumità. La nostra associazione sta cercando di investire risorse affinché personale specializzato possa insegnare loro una professione.
Come e in quale modo vengono finanziati i Centri Antiviolenza. Quanti ne dispone la vostra associazione sul territorio?
Il governo centrale stanzia dei fondi che vengono a loro volta distribuiti alle regioni le quali, poi, attraverso la pubblicazione di bandi li devolvono alle associazioni più virtuose. L’ultimo a noi assegnato è stato erogato dalla Regione Toscana attraverso il progetto “L’importanza di chiamarsi donna”. Altre forme di autofinanziamenti a cui ricorre il nostro centro sono lo strumento del 5X1000, le sensibilizzazioni a carattere territoriale, le erogazioni liberali.
Qual è l’iter di legge che prevede il reato di violenza contro le donne?
Nel 2019 è stato pubblicato il Codice Rosso che prevede un inasprimento delle pene a carico di coloro che commettono reati nei confronti delle donne, nonché l’introduzione del reato in caso di revenge porn, deformazione fisica, matrimoni forzati e stalking. Questo però non è ancora abbastanza, nonostante le leggi di tutela, le donne continuano a morire. Sarebbe necessario un cambio di passo culturale e normativo, come riuscire a trovare nuove risorse e soprattutto istituire leggi preventive.
Durante il lockdown si è vista una recrudescenza del fenomeno, quali sono i dati raccolti dalla vostra associazione?
Durante il lockdown la violenza ai danni delle donne non si è fermata. Per quanto riguarda la nostra associazione abbiamo attivato numerosi percorsi psicologici online e siamo riusciti a mettere in sicurezza una donna romena minacciata di morte dal suo ex compagno, facendo rete con un centro antiviolenza situato in Romania. Da marzo 2020, i casi risolti nelle regioni in cui abbiamo operato sono di 45 in Toscana, 87 in Lombardia e Roma area metropolitana, 50 in altri luoghi distribuiti sul territorio per un totale complessivo pari a 182 richieste di aiuto.
Come si inizia ad aiutare chi ha subito violenza? Ci sono differenze di percorso fra chi ha subito violenze psichiche rispetto a quelle fisiche?
Le donne che si sentono minacciate possono contattarci in molti modi. Possono telefonarci, inviarci messaggi anche tramite email. La nostra esperienza ci ha insegnato che purtroppo non si presenteranno mai personalmente agli sportelli. Ogni percorso è individuale e, dopo un primo colloquio, stabiliamo assieme il migliore da intraprendere. Spesso queste donne versano in uno stato confusionale e siamo costrette a affiancare personale specializzato che le aiuti a ritrovare un minimo di tranquillità. Una cosa che le accumuna e che notiamo con maggiore frequenza, è la non volontà di entrare nelle case rifugio. Ci chiedono perché proprio loro devono pagare il prezzo più alto, dovendosi allontanare da tutto, pur essendo delle vittime. L’allontanamento dal proprio vissuto ha effetti devastanti soprattutto sui figli, se ve ne sono, improvvisamente catapultati in un’altra dimensione, lontani dalla loro quotidianità. Le ripercussioni psicologiche in alcuni casi sono drammatiche. Recentemente abbiamo aiutato un minore che, come effetto dell’allontanamento, aveva tentato il suicidio.
La violenza fisica è visibile, quella psicologica più sottile e più complessa anche da dimostrare in sedi legali.
Quali sono le tipologie di donne, se ve ne sono, maggiormente interessate da violenze?
Non esiste una tipologia di donna vittima di violenza. La violenza sulle donne trascende la nazionalità, il colore della pelle, la religione, il ceto sociale: è trasversale. Sicuramente possono concorrere più che fattori culturali l’errata percezione di genere legata a tradizioni oscurantiste che ancora persistono in alcuni Paesi fra cui il nostro.
Esiste un aspetto moltiplicatore sociale come filo conduttore fra le donne vittime di violenza?
Purtroppo sì e questo rientra nella cosiddetta violenza assistita. Chi proviene da famiglie violente manifesta precocemente segni di insofferenza verso l’altro.
Quanto tempo le assistite possono disporre dell’ospitalità di una casa rifugio?
Dipende da molti fattori solo quando si ritiene che la donna sia in estrema sicurezza potrà lasciarla.
Esiste un lieto fine?
Per quanto ci riguarda possiamo dire che “sì, esiste un lieto fine”. Nonostante le notizie terribili che ancora ci arrivano, la certezza di aver aiutato e di aiutare costantemente tante donne ci permette di avere fiducia, di proseguire nella formazione, nella sensibilizzazione e nell’aggiornamento continuo dei nostri operatori.
1L’associazione che si caratterizza per la sua multiculturalità, svolge le sue attività in Italia e ha sede a Milano presso la Fabbrica del Vapore, in Brianza presso il comune di Varedo e alla Caritas di Limbiate, a Prato presso la Pubblica Assistenza l’Avvenire, a Roma dove collabora con l’associazione Energie Solidali e ha un proprio spazio presso la Chiesa di Santa Prisca. In supporto all’associazione la criminologa Roberta Bruzzone, e numerosi consouler, psicologi, psichiatri, mediatori culturali, avvocati specializzati in materia di immigrazione.
2Il Reddito di libertà viene riconosciuto solo dietro istanza di parte, alle donne che hanno subito violenza e si trovino in condizioni di particolare vulnerabilità ovvero in condizione di povertà, per favorirne l’indipendenza economica, la cui condizione di bisogno straordinaria o urgente viene dichiarata dal servizio sociale di riferimento territoriale nella stessa dichiarazione.
I crediti delle foto sono dell’Associazione Senza veli sulla Lingua