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Capire la Cop26

Piccoli strumenti per guardare alla politica ecologica dei prossimi anni

di Daniel Dolci 

Simon Kofe è il ministro degli esteri dello stato di Tuvalu, uno stato nel Pacifico che sta lentamente venendo sommerso. Lo vediamo mentre pronuncia un discorso immerso fino alle ginocchia. Il suo scopo era quello di mostrare le forti differenze fra una conferenza che si tiene in un luogo protetto dagli effetti più immediati del riscaldamento globale e il presente che i Paesi più ecologicamente fragili si trovano a vivere. Ha trasmesso queste immagini in occasione della Cop26, che si è tenuta a Glasgow, in Scozia, dal 31 ottobre al 12 novembre 2021. La Conferenza fa parte della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico (United Nations framework on climate change, UNFCCC) ed è uno dei nessi fondamentali della politica ecologica contemporanea.

Le premesse storiche

Le vicende del trattato sul clima iniziano nel 1997: la COP3 si tiene in Giappone e qui viene elaborato il Protocollo di Kyoto – entrerà in vigore solo nel 2005 – uno strumento giuridico atto a combattere il cambiamento climatico e firmato da 192 parti, una delle quali è l’UE. Nel Protocollo gli  Stati firmatari si impegnavano a ridurre le emissioni di alcuni gas serra del 5% rispetto ai livelli del 1990 entro il 2012. Nonostante le proposte ivi contenute, poste per limitare l’aumento della temperatura terrestre entro i 2°C, siano state disattese, questa prima tappa rimane un importante esempio sul come sia possibile stabilire un orizzonte politico globale, in cui le nazioni si ritrovino a collaborare attivamente.

La seconda tappa è a Parigi, nel 2015, dove si tiene la COP21. Siamo di fronte all’Accordo di Parigi, dove si riscrivono le norme stabilite a Kyoto. Oltre a far cadere la netta distinzione fra Paesi sviluppati e in via di sviluppo (nel Protocollo agli Stati in via di sviluppo non era chiesto di agire, nell’Accordo sì), l’Accordo si pone tre obiettivi: ridurre le emissioni, resistere meglio ai disastri provocati dal cambiamento climatico e rendere i flussi finanziari compatibili a un cambiamento dell’economia in meglio – meglio inteso dal punto di vista della sanità planetaria. È importante conoscerlo perché in esso sono proposte le due prospettive di cui sentiamo tanto spesso parlare: il piano A ovvero controllare l’aumento della temperatura globale sì da non superare i +1.5°C rispetto all’età preindustriale, e il piano B che abbassa l’asticella a +2°C, entrambi i piani guardano al 2050.

La Cop26 è la quinta dopo l’Accordo di Parigi (l’anno scorso, congelato dalla Pandemia, l’ha vista saltare), è così importante poiché nell’Accordo non si impongono rigide norme e sanzioni, piuttosto, ogni Stato deve presentare i suoi piani, chiamati NDC (nationally determined contributions, contributi determinati nazionalmente), per mantenere l’aumento della temperatura sotto controllo. Questi piani vengono revisionati ogni cinque anni, ecco perché a Glasgow ci si aspettava la messa in pratica definitiva dei discorsi fatti a Parigi. Infatti, dal sito internet ufficiale traspare che gli obiettivi sono quattro.

Il primo è quello di arrivare al cosiddetto Net zero, l’azzeramento delle emissioni nette (cioè un bilancio fra emissioni e assorbimento di co2 pari a zero) entro il 2050. L’abbiamo già visto all’interno degli scenari di Parigi, tuttavia qui si ricorda agli Stati che, per farlo, è necessaria una riduzione sostanziale delle emissioni entro il 2030, ovvero un cambiamento di prospettiva da vaghi piani a lungo termine a più precisi impegni immediati. Purtroppo, fin dai primi giorni della Cop, l’obiettivo Net zero è stato disatteso da due grandi protagonisti, fra cui il principale, la Cina, che è il Paese con il più alto tasso di emissioni, doppiando il secondo classificato: gli USA. La Cina ha voluto procrastinare l’obiettivo Net zero al 2060; l’India, al quarto posto dopo l’UE per Co2 emessa, al 2070.

Il secondo obiettivo è la resilienza, gli effetti del cambiamento globale sono ormai un dato di fatto e l’uomo deve adattarsi a un mondo pieno di catastrofi dovute al clima. Si tratta, insomma, di imparare ad abitare un disastro a cui siamo sempre più abituati. L’Atlante della mortalità e perdite economiche per Estremi climatici (1970-2019) ci dice già che nonostante l’asprezza del clima sia aumentata esponenzialmente, le vittime, nei Paesi sviluppati, non lo sono, poiché abbiamo sistemi di allarme più raffinati: resilienza.

Il terzo è mobilitare le istituzioni finanziare, sia pubbliche che private, è impossibile fare quanto detto se alla base non ci sono regolari e sostanziose iniezioni pecuniarie.

Come vedete, questi primi tre punti ricalcano perfettamente quelli dell’Accordo, tant’è che il quarto, intitolato “Collaborare” recita esattamente “finalizzare il “Libro delle Regole” di Parigi.

Lo svolgimento e i risultati

Le prime notizie diffuse erano quelle dell’assenza di Xi Jinping e Putin, ricordiamo qui che anche se un leader manca sono spesso i suoi funzionari e rappresentanti a svolgere il lavoro in vece dello Stato che rappresentano. Tant’è che dopo la pandemia Xi non è mai uscito dal Paese. Per quanto l’assenza dei leader in persona sia esplicativa, non significa l’astensione dell’intera nazione dalla Cop.

Il vertice sul clima si è aperto con gli scienziati che hanno constatato che le NDC presentate avrebbero fatto aumentare le temperatura di +2.4°C dall’era preindustriale entro la fine del secolo. Meglio di niente, prima dell’Accordo l’aumento era previsto a +3.6°C, ma non abbastanza, infatti uno dei successi è stato quello di ottenere la revisione delle NDC non fra 5 anni (2025), ma già per le prossime due Cop.

Altra questione scottante è il carbone: questa Cop è la prima in cui si parla esplicitamente di tagliare i combustibili fossili, nello specifico il 40% delle centrali a carbone (8.500) entro il 2030, e di non costruirne più nessuna. La proposta iniziale era l’azzeramento delle centrali, ma l’India si è opposta fortemente, essendo uno Stato che basa molta della sua produzione energetica sul carbone. Ugualmente contraddittoria è la questione della Cina, prima dell’inizio della Cop aveva già diverse nuove centrali a carbone in costruzione, ora che si è deciso questo, che ne farà? Ricordiamo che uno degli ultimi giorni è stato rivelato un accordo fra Cina e USA, in cui le due grandi potenze (e grandi inquinatrici) promettono di collaborare per diminuire le emissioni e aiutare a contrastare il cambiamento climatico.

C’è inoltre la questione dei fondi che i Paesi sviluppati avrebbero dovuto donare a quelli in via di sviluppo a partire dal 2020. Si tratterebbe di 100 miliardi di dollari all’anno, e sarebbe stato deciso nel 2009. Oltre a esserne arrivati solo 80 lo scorso anno, rimangono nei problemi nella gestione: questi fondi sono stanziati per due motivi, la maggior parte di essi sono volti a tagliare le emissioni e i restanti ad adattarsi ai disastri provocati dal clima. Paesi più solidi e ricchi possono presentare più facilmente progetti di transizione al rinnovabile, andando a drenare una parte sostanziale di questi fondi. Al contrario, Paesi più fragili hanno bisogno di più soldi stanziati per rispondere alle emergenze sempre in aumento. Si è arrivati a una redistribuzione del budget, alzando la percentuale destinata a queste operazioni. Inoltre si sono promessi 500 miliardi da qui al 2025 verso i Paesi in via di sviluppo. Questi, a loro volta, hanno promesso di raddoppiare i loro budget interni per le iniziative volte a contrastare il cambiamento climatico.

Un grande insoluto della Cop26 è probabilmente la questione Loss & Damage, con questo termine si fa riferimento a degli estremi climatici troppo aspri e distruttivi per essere contrastati con azioni di resilienza, in sostanza i morti (Loss) e le perdite economiche (Damage) sono ormai inevitabili e vanno tenute in considerazione nel bilancio generale. Nella scorsa Cop si era deciso che il compito di gestire queste circostanze sarebbe stata del Santiago Network, presente dal 2018, un’organizzazione delle UN con il compito di offrire assistenza tecnica ai Paesi in via di sviluppo, una delle proposte trasparita dalla bozza è quella di fare avere al network delle facilitazioni tecniche nel suo operato di redistribuzione dei fondi necessari. Tuttavia pochi progressi si sono fatti in questo senso, e se ne riparlerà l’anno prossimo.

Conclusioni

I Media parlano di risultati buoni non in termini di concretezza, ma piuttosto di consapevolezza. È stata ribadita la volontà di restare nello scenario 1.5°C, il più sicuro e controllabile, tuttavia siamo rimasti con poche decisioni radicali e tanti inviti a tornare con piani più precisi, anche se il più grande traguardo sembra il fatto che finalmente le 197 parti dell’Accordo si siano in qualche modo allineate, accorciando certe tempistiche e prendendo in considerazione con più pragmaticità il riscaldamento globale. Le contraddizioni rimangono, poiché certi Stati lo pagano più di altri, come Tuvalu per esempio.

Nello sviluppo dei negoziati, una delle principali rivendicazioni è provenuta dai Paesi che sono entrati più tardi nell’industrializzazione, essi hanno chiesto più tempo per ridurre le emissioni. L’accusa è che i Paesi più ricchi sono diventati potenti e influenti inquinando molto, mentre questi, essendo arrivati dopo e avendo quindi inquinato di meno, meriterebbero più tempo per mettersi alla pari delle potenze. Da una parte si tratta di un discorso fondato, dall’altra il riscaldamento globale è un fenomeno che accomuna tutti e tutte, indistintamente da quanto presto o tardi abbiano iniziato a inquinare, ed è proprio per questo che la Cop26 va anche a sottolineare la profonda contraddizione che le disparità generano. Come può uno stato investire molto nel cambiamento climatico se gli bastano a malapena i soldi per tenere in piedi i sistemi scolastici e sanitari? Oppure, nel caso di Tuvalu, vediamo come la produzione di Co2 ha effetti su tutto il globo indipendentemente da dove venga generata, nessuno può lavare da solo i propri panni sporchi.

Confrontiamoci ora, in senso più generale, con i dati; osserviamo come l’anidride carbonica, misurata in ppm (parti per milione) rilevata nella stazione di Manua Loa nelle Hawaii, è cresciuta con una costanza allarmante negli ultimi cinquant’anni. Sono le emissioni dei vari stati ad essere cambiate, mettiamo qui dei dati dal 1995, anno della prima Cop, per verificare quali risultati sono stati ottenuti e come.

Questi tre grafici a confronto mostrano come la sfida del cambiamento climatico sia un problema che implichi una collaborazione globale, poiché se alcuni Paesi hanno diminuito le emissioni, altri le hanno fatte decollare, mantenendo stabile la crescita di CO2. Assieme alla pandemia, questo sembra suggerire che le grandi sfide storiche che saremo chiamati ad affrontare non saranno più di ordine nazionale o rispetto a determinati territori, ma coinvolgeranno tutto il nostro pianeta e ci insegneranno, con il bastone o con la carota, che l’interdipendenza è una realtà a cui nessuna nazione può sfuggire.