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di Salvatore Baldari
Il conto alla rovescia sta ormai per cominciare. E non ci riferiamo all’ineluttabile “dieci…nove…otto…” della mezzanotte dell’ultimo dell’anno. La lunga attesa per l’elezione del tredicesimo Presidente della storia della Repubblica Italiana, sta per consumarsi. Il 4 Gennaio, il Presidente della Camera, Roberto Fico, comunicherà la data in cui i grandi elettori si ritroveranno in assemblea unificata.
Eleggere il successore di Sergio Mattarella che ha caratterizzato il suo settennato con “dolcezza e fermezza” per usare le parole di Mario Draghi, sarà il compito del Parlamento, dei partiti e dei grandi elettori.
E proprio Mario Draghi, dopo essersi recentemente definito un “nonno al servizio delle istituzioni”, viene additato come la personalità più accreditata alla successione.
Ma, come la storia italiana ci tramanda, niente è così scontato nella corsa al Quirinale.
I movimenti e i dialoghi fra i leader di partito, quelli che un tempo si chiamavano segretari, sono ormai avviati e serrati, nonostante le loro dichiarazioni pubbliche cerchino di rinviare la questione alle prossime settimane. Mai come in questa occasione, per la concomitanza con lo stato di emergenza legato alla pandemia e per le sorti strettamente connesse del Governo, il richiamo alla responsabilità pare qualcosa di più della solita retorica.
Gli opinionisti e il mondo produttivo chiedono ai partiti di fare in fretta e di fare bene.
Del resto, le disposizioni anticontagio richiedono di sanificare ogni volta l’aula e, per questo motivo, non si potranno svolgere molte sedute in una sola giornata. Il rischio di trascinare la questione per diversi giorni in caso di stallo o di tatticismi, è concreto. Lo è a maggior ragione in questa occasione, in cui più che dei tradizionali “franchi tiratori” cui siamo abituati, si potrebbe parlare di “tiratori franchi”, per via del consistente numero di parlamentari presenti nel gruppo misto, non coordinati e fuori dal controllo dei partiti strutturati. La via maestra, fatta trapelare dai leader di partito in questi ultimi giorni, è quella di eleggere un Capo dello Stato con il più ampio consenso possibile in Parlamento, andando oltre l’attuale maggioranza che regge il Governo, se possibile. Ciononostante, in molte redazioni, inizia a mettersi in moto il pallottoliere, per simulare le ipotesi di apparentamenti, per quando si andrà oltre il quarto scrutinio, laddove si abbasserà il quorum e la massima carica della Stato potrebbe essere partorita da una espressione riferibile ad un’area politica ben definita.
Ascoltando alcuni illustri commentatori, arrivare al quarto scrutinio sarebbe un’oscenità, un atto irresponsabile. Eppure, nella storia della Repubblica, soltanto tre volte è accaduto che il “conclave civile” si risolvesse entro i primi tre spogli. Nelle restanti nove elezioni si è sempre andati dal quarto in poi.
Per uno strano scherzo del destino, proprio nella giornata di oggi, 29 dicembre, ricorrono le due elezioni al Colle, più lunghe della storia della Repubblica Italiana.
Il 29 dicembre 1964 veniva eletto Giuseppe Saragat dopo ben ventuno scrutini
Il suo successore, Giovanni Leone, riuscì addirittura a fare meglio, strappando il pass per il Quirinale il 29 dicembre 1971, al ventitreesimo spoglio.
Ma, queste due Presidenze appena citate, non si esauriscono nelle statistiche perché, seppur a diversi decenni da noi, appaiono beffardamente collegate a noi, per alcuni temi, tuttora attualissimi.
Saragat in retrospettiva
Nel corso del suo settennato, ad esempio, il Presidente Saragat si ritrovò a dover bilanciare la politica estera filo-araba dell’allora Ministro degli Esteri, Amintore Fanfani, il quale, allo scoppio della Guerra dei sei giorni nel 1967, diede l’impressione di muoversi per l’uscita dell’Italia dalla Nato.
Saragat dovette muoversi in prima persona, con una visita ufficiale a Washington, per rassicurare gli alleati.
Gesti politici tornati prepotentemente all’ordine del giorno negli ultimi anni, in cui le posizioni di alcuni partiti e intellettuali erano tornate a rimettere in discussione la presenza italiana e la funzione stessa dell’alleanza atlantica, in favore di fantomatici ammiccamenti verso altre potenze, ben oltre i consueti rapporti commerciali.
Più volte, proprio Mattarella ha dovuto rimarcare il nostro posizionamento nello scacchiere geopolitico, definendo la Nato “insuperabile baluardo di pace e irrinunciabile foro di dialogo” o ancora una “pietra angolare per la sicurezza”.
Giuseppe Saragat fu anche il Presidente, sotto il cui mandato, si alimentò il fenomeno globale dei moti giovanili e studenteschi, con il loro culmine nel Sessantotto. Manifestazioni di piazza e cortei, diffusi in tutta Europa e in tutto il mondo, che avrebbero cambiato per sempre i diritti civili e lo stile di vita dell’umanità intera. Con proporzioni forse maggiori e rivendicazioni differenti, noi stiamo vivendo nell’ultimo periodo, le iniziative del Friday for Future che, condivisibili o meno, stanno condizionando fortemente il dibattito pubblico mondiale e soprattutto le politiche dei Governi.
Saragat fu un Capo dello Stato rispettoso della volontà del Parlamento, non rinviò mai un provvedimento alle Camere e, in ognuno delle quattro occasioni, conferì l’incarico di Governo sempre agli esponenti indicati dalla maggioranza.
Leone e la sua movimentata presidenza letta oggi
Decisamente più movimentata, fu invece la presidenza del suo successore Giovanni Leone che per ben due volte ricorse allo scioglimento delle Camere, la prima nel 1972 che fu anche la prima volta nella storia della Repubblica Italiana.
Quello dello scioglimento anticipato delle Camere è stato tema di discussione molte volte, in tempi recenti, recentissimi, basti tornare indietro al febbraio di quest’anno o alla mitica estate del Papeete o ancora a, praticamente, dieci giorni dopo le elezioni del 2018. E chi non ricorda le richieste di sciogliere le Camere in seguito al referendum del dicembre 2016? O dopo la dichiarata incostituzionalità della legge elettorale “Porcellum”? Lo scioglimento delle Camere resta una esclusiva prerogativa del Presidente della Repubblica, un atto delicato e dirompente che tuttavia troppo spesso viene sbandierato nei talk show, sui palchi e sui giornali con gran disinvoltura.
Giovanni Leone torna prepotentemente contemporaneo in una altra sua manifestazione politica che è il messaggio alle Camere dell’ottobre 1975, in cui esortava a produrre una legge costituzionale che prevedesse il divieto di rielezione del Presidente della Repubblica, la riduzione da sette a cinque anni del mandato presidenziale e l’abolizione del semestre bianco. Se pensiamo che, oggi, dopo quarantasei anni, continuiamo a ripeterci queste cose e che, soltanto venti giorni fa è stato depositato un disegno di legge con contenuti praticamente identici, ci rendiamo conto di quanto le nostre istituzioni siano interpreti di un tragicomico Giorno della Civetta.
A differenza di Saragat suo predecessore, Giovanni Leone fu frequentemente in contrasto con la maggioranza parlamentare e, quando lo reputava necessario, non si tirava indietro dal non promulgare i testi di legge che le assemblee gli sottoponevano. Caso emblematico fu quando rinviò alle Camere la legge sui nuovi meccanismi elettorali del Consiglio Superiore della Magistratura. Un argomento che a tutti noi suona fatalmente familiare. Dopo il caso Palamara e lo scandalo delle nomine pilotate che ha portato alla sospensione di cinque magistrati solo pochi mesi fa, il fenomeno del correntismo all’interno del Csm ha recentemente alimentato il dibattito pubblico e politico, generando una lunga serie di proposte di intervento, che auspicabilmente troverà concretezza in una imminente riforma elaborata dal Ministro Cartabia.
Lo stesso Mattarella, in questi anni, ha ricevuto critiche proprio per non aver inciso sul delicato nodo del Csm e dell’indipendenza della magistratura.
Giovanni Leone potrebbe anche essere definito una delle prime vittime di un primordiale esempio di giornalismo manettaro che poi, in futuro, nel nostro Paese avrebbe trovato terreno fertile per sbocciare.
Dapprima, infatti, il periodico OP montò presunti scandali nella vita privata della moglie del Presidente e successivamente accusò lo stesso di essere addentrato negli ambienti della finanza d’assalto. Sarebbe sufficiente ricordare che il Direttore di questo periodico risultò poi fra i nominativi dei membri della loggia P2. In seguito, durante la primavera 1976, Leone fu accusato di essere il dominus dello scandalo Lockheed, ovvero illeciti nell’acquisto da parte dello Stato italiano di velivoli statunitensi. Nelle fasi successive al rapimento e all’assassinio di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse, il Capo dello Stato e la sua famiglia si ritrovarono al centro di violenti attacchi politici e mediatici che trovarono consistenza in un libro della giornalista Camilla Cederna, pubblicato all’inizio del 1978.
Anche queste vicende contribuirono ad alimentare una sfiducia da parte del suo stesso partito nei suoi confronti, che lo condussero a maturare la decisione di rassegnare le dimissioni in diretta Tv, il 15 Giugno di quello stesso anno.
In così poche righe, senza dubbio, non si potevano condensare le attività istituzionali e le personalità di due Presidenti della Repubblica, protagonisti insieme di una parte di storia italiana carica di avvenimenti e contraddizioni. Né era nostra intenzione farlo. Per questo lavoro ci sono gli storici, dotati delle competenze necessarie e della profondità cognitiva sufficienti a poter esprimere pareri di merito e ricostruzioni coerenti. A noi interessava ricordare queste due figure, nell’anniversario delle loro elezioni, provando ad inserirli nel nostro contesto, così da poter guardare avanti, sempre con uno specchio in tasca.