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di Pierfrancesco Galati
“Hanno ammazzato compare Turiddu!» – il grido della popolana che denuncia il delitto d’onore compiuto nella Cavalleria rusticana condusse l’opera italiana lungo una strada assai diversa rispetto a quella calcata dalla precedente produzione operistica. Non solo diversa, ma anche poco conosciuta e trattata, se si considerano i numerosi studi che trattano l’epoca del bel canto e la produzione verdiana.
Che cos’è l’opera dei bassifondi o melodramma pebleo
In questo articolo intendo esaminare gli aspetti salienti del melodramma italiano della fine del secolo: vorrei in primo luogo analizzare la prima fase dell’opera verista ovvero il filone rusticano, altrimenti detto opera dei bassifondi o melodramma plebeo. Devo qui prescindere da una più dettagliata analisi della seconda fase del verismo musicale: al filone storico dedicherò soltanto una breve parte, omettendo quasi per intero la produzione pucciniana, assai nota e già ampiamente trattata.
La Cavalleria rusticana e la nascita del verismo musicale
La data di nascita della Cavalleria rusticana (17 maggio 1890) è stata assunta dalla storia come termine di riferimento, come spartiacque per tracciare l’evoluzione del melodramma italiano di fine Ottocento. Questa prima opera del cosiddetto verismo musicale, tratta dall’omonimo testo di Giovanni Verga, venne composta in occasione di un concorso bandito dalla Casa Editrice Sonzogno di Milano.
La comune collaborazione con il Sonzogno (se si esclude Giacomo Puccini, che scrisse per la Casa Editrice Ricordi, anche se con Sonzogno pubblicò “La Rondine”, ndr) riunisce Pietro Mascagni, Ruggero Leoncavallo, Umberto Giordano e Francesco Cilea sotto l’etichetta di Giovane Scuola.
In alternativa a questo termine si usa anche la denominazione Scuola verista, riconducibile al fatto che i musicisti di questa scuola si allontanarono dai soggetti di carattere romantico. Essi preferirono personaggi tratti dall’ambiente popolare o borghese, anche se violenti, perché animati da passioni più vicine a quelle della gente comune, concepiti non solamente dalla fantasia dell’autore, ma colti nella loro realtà e, dunque, più ricchi di umanità. I pezzi dei compositori del filone verista sono caratterizzati dalla varietà della ricerca di temi e di realizzazioni drammaturgiche nuove rispetto all’esperienza verdiana.
Dopo lo strepitoso successo di Mascagni, quasi tutti i giovani compositori si cimentarono in questo genere, componendo opere brevi, ambientate quasi sempre tra la plebe del Mezzogiorno d’Italia. Le opere della prima fase vennero denominate opere dei bassifondi oppure melodrammi plebei. Il pubblico della piccola-media borghesia era contento di vedere finalmente i «vinti» sulla scena, dopo che per secoli erano stati i nobili a dominarla, ma ben presto si stancò anche dell’opera dei bassifondi, l’opera a coltellate, e i compositori tornarono ai soggetti storici, sia pure con un linguaggio librettistico tratto dalla quotidianità. La tipologia melodrammatica definita plebea naturalmente non è un blocco a sé stante: il suo linguaggio deriva in parte dal melodramma romantico, in parte dalle esperienze letterarie coeve. In verità si possono riconoscere germi del verismo già nella Carmen bizetiana e in una parte della produzione verdiana.
L’autore esiliò la lotta verdiana tra bene e male per mettere in scena il conflitto quotidiano e verosimile tra uomo e donna. Lo spettacolo, invece, rimase quello tradizionale: belle melodie, appassionanti storie d’amore, ma di veristico nel senso letterario, vi era poco. Con le parole di Adriana Guarnieri Corazzol: «Benché la denominazione di verismo, letterario e operistico, sia d’epoca […] si tende oggi a considerare quella coincidenza un incontro mancato».
Per definizione, il dramma plebeo deve essere ambientato fra gente di umile estrazione: alla ricerca di sensazioni forti, i compositori veristi rappresentarono nelle loro opere i ceti medi. La tematica amorosa, carissima agli operisti di ogni epoca, venne riadattata a persone di bassa condizione sociale ed acquistò aspetti primordiali, a volte perfino brutali.
Il tratto peculiare delle opere plebee, innovativo ma al tempo stesso estremamente vincolante, sta nel fatto che la vicenda deve svolgersi in un ambiente contemporaneo alla rappresentazione e l’argomento deve essere attuale, tratto addirittura dalla cronaca quotidiana. Le caratteristiche cardinali del libretto operistico plebeo sono: delitto d’onore, violenta tragedia finale, scene di gelosia, folklorismo che spesso degenera.
La struttura tipica dell’opera plebea consiste di un atto unico, che può talvolta prevedere una cesura rappresentata da un intermezzo sinfonico (Pagliacci, le due Cavalleria). Non ci sono più tagli netti tra scena, duetti, aria, e talvolta l’atto finisce con battute parlate: le forme chiuse divengono sempre più rare e sono riservate a scene di evasione, come serenate, brindisi, preghiere. Buona parte delle opere plebee presenta – come dichiara Ruggero Leoncavallo nel Prologo dei Pagliacci – «uno squarcio di vita», una tranche de vie priva di un vero sviluppo drammatico, senza le complicazioni tipiche di molte trame complesse del teatro romantico.
Il tradimento fa il proprio ingresso nell’opera verista
Gli intrecci non sono ricchi di avvenimenti (non si complica, quindi, l’azione), ma presentano una struttura quasi a due movimenti, entro cui è possibile individuare uno schema: A ama B, riamato/a. Il marito C ignora questo rapporto. Ad un certo punto, C viene a conoscenza della situazione, per cui vi è il finale tragico: C uccide A o B oppure ambedue: il/la consorte e l’amante. Il melodramma, in genere, ha come struttura-base una vicenda amorosa, dove il rapporto amoroso è collocato all’interno di una vicenda di carattere storico. Prendendo in esame la produzione verdiana, possiamo notare l’unica eccezione di Macbeth, in cui è assente qualsiasi relazione d’amore fra i personaggi. In generale potremmo dichiarare che una delle caratteristiche comuni alle opere verdiane è l’assoluta moralità dei rapporti amorosi. Gli amanti si possono legittimamente desiderare, ma sono diverse le cause per cui non possono amarsi realmente: ad esempio per la rivalità di un oppositore (il Conte di Luna, antagonista de “Il Trovatore” o Carlos de “La Forza del Destino”, entrambe partorite dalla penna di Giuseppe Verdi), per concezioni morali che vengono considerate ingiuste anche implicitamente (il vecchio Germont ne La Traviata), o per un inganno (Attila, o Jago). In nessun’opera verdiana si assiste però al tradimento del consorte: non si presenta, infatti, alcun caso in cui il rapporto scandaloso sia al centro della vicenda. Nello stesso tempo nel corpus plebeo questo accade ben frequentemente, anzi, è la tematica più diffusa (Cavalleria rusticana, Pagliacci, Il tabarro). Le vicende devono presentare un contrasto a sfondo erotico e sfociare in una conclusione tragica. Spesso la tragedia finale è palesemente inevitabile, lo si intuisce già dall’inizio del dramma: per esempio nella Siciliana di Turiddu che esprime la consequenzialità amore-morte. Amore e morte si equivalgono in Puccini; quest’ultimo, infatti, considerò l’amore come una colpa tragica che doveva essere espiata con la morte.