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Da Keynes in poi il dibattito sull’automazione è più vivace che mai
di Salvatore Baldari
Era il Giugno 1930 e a Madrid, il celebre economista John Keynes teneva una delle sue conferenze più note, durante la quale pronunciò una frase profetica, frutto di studi ed analisi, naturalmente e non di chiromanzie.
‹‹Siamo afflitti da una nuova malattia di cui alcuni lettori potrebbero non conoscere ancora il nome, ma di cui si parlerà molto negli anni a venire: la disoccupazione tecnologica››.
A distanza quasi un secolo, il dibattito riguardo l’impatto delle nuove tecnologie sul mercato del lavoro è vivo come non mai.
L’International Federation of Robotics definisce i robot industriali come macchine programmabili per lo svolgimento autonomo di attività manuali, ovvero assemblaggio, movimentazione dei materiali, imballaggio e saldatura.
La stessa organizzazione, con sede a Francoforte sul Meno, stima che la quantità complessiva di robot sia più che quadruplicata dagli anni Novanta ad oggi, con un incremento legato primariamente all’industria automobilistica, elettronica e metallurgica dei paesi industrializzati, quali Corea del Sud, Giappone, Germania, Italia e Stati Uniti.
Una recente analisi della rivista economica LaVoce.info ha provato ad esaminare quali conseguenze comporta l’utilizzo dei robot sul mercato del lavoro, partendo dall’assunto teorico che le tecnologie di automazione sono in grado di eseguire mansioni svolte dalla forza-lavoro umana, subentrando a una quota di lavoratori e limitando i salari.
Ciononostante, dal progresso tecnologico derivano elementi positivi, come l’aumento della produttività nei processi esistenti e la creazione di nuove mansioni.
L’automazione, infatti, incrementa l’occupazione delle aziende che la introducono grazie ad un aumento della produttività e delle quote di mercato.
L’altra faccia di questa medaglia è che la crescente competitività di queste imprese, si riflette negativamente su quelle che non automatizzano ed è in queste che si riduce la domanda di lavoro.
Da alcuni dati francesi e spagnoli questo trend viene confermato: le aziende che nei propri processi produttivi si servono di robot industriali creano nuovi posti di lavoro.
Parliamo spesso di grandi imprese, già molto produttive, con la possibilità di investire ulteriormente in capitale fisico. Al contrario, le imprese che per scelta o per necessità non fanno uso di queste tecnologie, abitualmente piccole e medie imprese, non possono far fronte alla crescente concorrenza e si ritrovano forzate a ridurre la loro domanda di lavoro.
Inquadrando il tema dal lato della forza-lavoro, i lavoratori non sono esposti tutti allo stesso modo alle nuove tecnologie.
L’automazione ha generato una accentuata polarizzazione del mercato del lavoro, secondo cui la domanda di lavoro nelle occupazioni difficilmente automatizzabili aumenterebbe ai danni di quella dei lavoratori a bassa e media specializzazione che svolgono attività routinarie.
Alcuni studi condotti nel Nord-Europa convalidano questa tendenza, evidenziando come lo sviluppo della robotica stia rimpiazzando i lavoratori con una qualifica medio-bassa e aumentano la domanda di tecnici qualificati, fra cui ingegneri e ricercatori. Tuttavia, le conclusioni sostengono che, nonostante queste tecnologie non sono in grado di rimpiazzare intere occupazioni, ma solo alcune mansioni.
Proprio John Keynes, nel corso della sopracitata conferenza, reputò la disoccupazione tecnologica come una fase temporanea.
In effetti, prima dell’evento pandemico, nelle economie avanzate, in cui l’impiego dei robot è stato intenso, i tassi di occupazione erano ai massimi storici.
E non ci sono evidenze di disoccupazione strutturale causate dalle tecnologie di automazione, quanto piuttosto una domanda di lavoro altissima, con 30 milioni di posizioni vacanti nei paesi dell’Ocse.
È necessario, pertanto, continuare ad investire in capitale umano per essere competitivi sul mercato del lavoro anche in futuro.