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Una situazione preoccupante quella in atto: i prezzi non accennano a calare, nonostante in marzo arrivi un segnale positivo sul carovita
Tra i motivi principali per cui persiste la stagnazione sul livello dei prezzi, ormai elevati già da tempo, bisogna considerare certamente la stretta monetaria – di volta in volta – confermata dalla Banca Centrale europea. L’altro tema rilevante e collegato all’andamento dei prezzi è quello delle quotazioni all’ingrosso dell’energia elettrica. L’Arera ha scritto in una recente memoria: “Le quotazioni dei mercati all’ingrosso dell’energia elettrica per i prossimi mesi hanno di nuovo mostrato volatilità crescente e quotazioni per il terzo e quarto trimestre in rialzo, con aumenti di circa il 10% nel terzo trimestre e del 25% nel quarto trimestre rispetto alle quotazioni del secondo trimestre”.
I prezzi dei beni primari ed energetici
Vediamo ora un po’ più nel dettaglio l’andamento dei prezzi. I beni alimentari, lavorati (e non) mostrano, in media, un aumento del 12,9%, ovviamente il peso di questo rialzo si ripercuote fortemente sui bilanci familiari, soprattutto nelle situazioni più precarie, essendo beni primari. I beni energetici registrano, invece, un rialzo del 10,8% che deriva principalmente dai non regolamentati, come sono ad esempio i carburanti per gli autoveicoli. Dobbiamo segnalare che i beni energetici regolamentati, come energia elettrica e gas per uso domestico, sono invece in calo del 20,3%.
Elettrodomestici e servizi
Gli altri beni, sia i durevoli che i non durevoli, che i semidurevoli (per esempio auto, tv e frigoriferi), mostrano rialzi tra il 3,1 e il 6%.
Complessivamente i beni segnano quindi un rialzo del 9,7%, meno del 12,4% di febbraio, ma comunque elevato. Se allarghiamo lo sguardo anche verso il comparto servizi vediamo un rialzo in media del 4,5 che però raggiunge il 6,3%, se consideriamo solo i trasporti, quindi un tasso minore rispetto al resto, ma comunque da non sottovalutare.
I cambiamenti del commercio
Cerchiamo ora di andare a quella che potremmo definire “l’origine” di questa situazione di crisi generale, analizzando come è cambiato il commercio in Italia, dopo la pandemia. Come è noto, questo evento ha sconvolto letteralmente un po’ tutti i settori del commercio. Non tutti i comparti sono stati colpiti negativamente, come ad esempio le imprese che producono forniture mediche o articoli per l’igiene, oppure dispositivi di protezione come le mascherine.
In generale, le aziende hanno dovuto “rimboccarsi le maniche” e rinnovarsi, aumentando la loro presenza on line ed i servizi offerti, pur di sopravvivere al ciclone del coronavirus. Il digitale ha rappresentato, certamente, per molti “la salvezza”, perché in questo modo le aziende hanno potuto ampliare la loro clientela e soprattutto assicurarsi la possibilità di continuare a lavorare e quindi letteralmente di “sopravvivere”, ma non a tutte le aziende è andata bene.
Prendendo in esame l’anno 2020, sono state oltre 300mila le attività commerciali che hanno chiuso i battenti, di cui 240mila a causa della pandemia. Questi dati ci danno una panoramica di come sta cambiando il tessuto commerciale delle nostre città: i negozi stanno sparendo dai centri storici, come anche le attività ricettive e di ristorazione.
Farmacie e negozi di informatica
Rimangono farmacie e negozi di informatica e comunicazioni che, in controtendenza, hanno registrato vendite in positivo.
In nove anni, dal 2008 al giugno 2021, sono scomparsi quasi 85mila negozi fisici, di cui circa 4mila e 500 durante la pandemia. “Numeri che potrebbero essere peggiori nella realtà – ha spiegato il direttore dell’Ufficio Studi di Confcommercio, Mariano Bella – perché ristori e cassa integrazione hanno congelato la demografia”. Per combattere la desertificazione commerciale bisogna preservare le attività che rendono viva una città. Tra queste spiccano i negozi di vicinato, il cuore pulsante dei centri urbani.
Il commercio online
Il periodo del lockdown ha dato un colpo durissimo alle nostre aziende. I consumatori, non potendo più comprare nei negozi i beni non essenziali, per via delle limitazioni imposte dal governo, hanno iniziato ad acquistare sempre di più online. Le aziende hanno puntato maggiormente sull’e-commerce e hanno ideato nuove opzioni per comprare e ricevere la merce in totale sicurezza.
Il commercio online ha aiutato e continua ad essere un grande alleato per molti negozi ad aumentare il proprio business. Anche i pagamenti digitali sono aumentati notevolmente, come testimoniano i dati di Bankitalia. Un cambiamento davvero radicale nelle abitudini dei consumatori post pandemia: comprare online è diventato sempre più semplice e certamente più comodo.
Col passare del tempo anche prodotti come i generi alimentari hanno visto crescere le vendite online. La comodità di ricevere qualunque cosa seduti sul divano di casa ha sicuramente incentivato il consumatore medio.
A fronte di alcune considerazioni tutto sommato positive, non possiamo di certo dimenticare quelli che sono stati gli effetti negativi su molti settori che hanno subito pesantemente le conseguenze delle chiusure di volta in volta scandite dal governo. Tra le più penalizzate ci sono state:
le attività sportive (87,2%);
le attività legate alla cultura, come biblioteche e musei (83,5%);
le imprese di servizi alla persona, come parrucchieri e centri benessere (81%);
i servizi di alloggio (circa 80%);
la ristorazione (77%).
Considerando tutto il periodo da febbraio 2020 ad oggi, vediamo che il trend negativo non accenna a fermarsi, a causa della crisi russo-ucraina, dello stop al gas russo, del costo energetico e delle bollette alle stelle.
Quante attività sono state chiuse negli ultimi 12 mesi? Il risultato è che i più deboli non hanno retto a questi shock. Secondo i dati di Infocamere-Movimprese – ripresi dal Sole 24 Ore – emerge che sono scomparse ben 4.800 attività. Nel dettaglio: 4.339 bar, 70 ristoranti, 259 alberghi e 119 sale da ballo. Dietro questi dati sul trend delle imprese registrate tra il 2019 e il 2022 ci sono le storie di persone, famiglie e attività storiche.
Chiusi 11.214 bar, 849 hotel, 233 discoteche.
Rispetto a prima della pandemia, prendendo a riferimento il 2019, stando al registro delle imprese sono state chiuse migliaia di attività. Parliamo di 11.214 bar, 849 hotel, 233 discoteche. “La pandemia ha lasciato una serie di tossine nel corpo delle imprese: in primis l’indebitamento, poi la mancanza di flusso di cassa”, spiega il vicepresidente e direttore del centro studi di Fipe Luciano Sbraga. Oggi la gestione di un’attività di questo tipo è quasi impossibile, grazie alle scelte fatte dall’Europa e avallate dall’Italia sulle sanzioni alla Russia. Nel corso del 2022 il costo dell’energia è aumentato del 200%, ne deriva che chi pagava 15mila euro ha dovuto saldarne 45mila.
Le mancate nuove aperture
E a preoccupare ora non sono solo le chiusure, ma anche le mancate aperture. Segno che il Paese è al palo. Quante sono le nuove iscrizioni a fronte delle chiusure? Le iscrizioni di nuovi bar nel 2022 sono state appena 3.810 contro le 5.675 del 2019. Lo stesso vale per i ristoranti (nel 2022 si sono registrate 5.463 imprese, contro le 7.123 del 2019).
In definitiva le sfide non mancano, sia per i livelli ancora elevati dei prezzi, sia per le incertezze di cui abbiamo parlato. I consumi restano a rischio e con essi la ripresa economica.