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Il comportamento sanguinario degli agenti penitenziari è talmente frequente e diffuso da poter essere definito sistematico.
Appare irriconoscibile il corpo di Seyyed Mohammad Mirmousavi, l’ennesima vittima innocente uccisa dal regime teocratico della Repubblica Islamica. È il 24 Agosto e Mirmousavi, 36enne di Lahijan, durante uno scontro locale viene arrestato e condotto in custodia: morirà quello stesso giorno per mano degli agenti dell’Unità speciale delle forze di polizia di Langarud.
Mirmousavi, riporta l’organizzazione Hengaw, è morto a causa delle percosse subite durate la sua permanenza in carcere, lì infatti gli agenti lo hanno duramente picchiato e torturato tanto da procuragli un’emorragia; chi ha lavato la salma inoltre precisa che nella schiena e all’altezza della vita del ragazzo c’erano evidenti segni di proiettili.
Ma c’è di più: un rapporto del quotidiano Shargh, citando fonti locali, informa che mentre Mirmousavi era in custodia la polizia lo ha ripetutamente offeso, rivolgendo contro di lui “oscenità”, mentre un altro testimone ha dichiarato che gli agenti hanno legato a un pilastro Mirmousavi, e sempre in quella posizione lo hanno picchiato con una corda, un ferro, una verga e un bastone.
Come in moltissimi (troppi) altri casi, anche durante la detenzione di Mirmousavi le Forze di polizia hanno usato un’aggressività feroce e brutale contro l’incarcerato, non rispettando, ma questa non è purtroppo una novità, il Diritto internazionale che afferma che ogni individuo ha diritto alla sicurezza fisica durante la detenzione.
Oltretutto per insabbiare quanto successo, le agenzie di sicurezza iraniane hanno pressato la famiglia della vittima affinché si astenesse dal rendere pubblico quanto accaduto, avvertendola di non diffondere informazioni e di non fornire dettagli di cronaca sul suo omicidio. Le autorità giudiziarie locali hanno anche minacciato e intimidito la famiglia della vittima affinché si astenesse dal perseguire eventuali procedimenti legali.
Per evitare che l’uccisione di Mirmousavi generasse troppo rumore mediatico, cinque agenti di polizia sono stati arrestati e altri sono stati sospesi, ma questa è ovviamente soltanto una mera azione di propaganda del regime.
Questo caso infatti dimostra, ancora una volta, come in Iran non esista giustizia di alcun tipo, né in carcere né fuori, perché qualsiasi cittadino può ritrovarsi incarcerato e ucciso dalle autorità senza che la sua famiglia possa pretendere, non solo un equo processo, ma anche lecite spiegazioni e di avviare indagini indipendenti sulle reali cause di morte.
I precedenti: le morti per tortura dei detenuti Reza Dehboyd e Javad Rouhi
Negli ultimi due anni le morti causate da tortura all’interno delle carceri e nei centri di detenzione della Repubblica Islamica dell’Iran sono aumentate in modo allarmante, specialmente a Gilan e a Mazandaran; tuttavia il comportamento sanguinario degli agenti penitenziari è talmente frequente e diffuso da poter essere definito sistematico presschè in ogni penitenziario.
A tal proposito non si possono dimenticare le tragiche le morti di Reza Dehboyd e di Javad Rouhi.
È Dicembre 2022. Il 29enne di Sari, Reza Dehboyd si reca, come gli è stato ordinato, al Ministero dell’Informazione per sottoporsi ad alcune domande. Dehboyd da quel Ministero non uscirà vivo, ma morto; il suo corpo verrà restituito alla famiglia con evidenti segni di torture.
Qualche mese più tardi, a fine Agosto 2023, ad essere ucciso è Javad Rouhi, 31enne manifestante del movimento “Donna-Vita-Libertà” arrestato arbitrariamente il 22 settembre 2022 a Noshahr, Mazandaran, e inizialmente condannato a morte (pena poi annullata). Secondo Amnesty gli agenti del centro di detenzione delle Guardie rivoluzionarie, che si trova all’interno della prigione di Tir Kola a Sari, hanno manifestato una violenza inaudita nei confronti del detenuto. Javad è stato picchiato e fustigato e, come accaduto a Mirmousavi, è stato legato a un palo dove è stato colpito con pistole elettriche, esposto a temperature gelide e aggredito sessualmente. Gli ufficiali delle Guardie Rivoluzionarie hanno inoltre ripetutamente puntato le loro armi contro la testa di Javad minacciandolo che se non avesse “confessato” gli avrebbero sparato.
Javad morirà a fine Agosto.
Il 31 Agosto 2023 il Dipartimento per le pubbliche relazioni della prigione di Noshahr diffonde una nota con cui dichiara che la morte del giovane è avvenuta a seguito di un attacco epilettico: l’ennesimo insabbiamento per coprire le violenze perpetuate dagli agenti, e pulire le mani sporche di sangue della Repubblica islamica e del suo regime del massacro.
Cure negate ai detenuti malati
Torture, violenze sessuali, isolamento e pressioni psicologiche sono alcuni dei trattamenti che i prigionieri nelle carceri in Iran subiscono regolarmente da parte degli agenti carcerari. Comportamenti, questi, che vengono attuati per intimidire e reprimere i detenuti (specialmente quelli politici), estorcere false confessioni, ma anche per indebolire le innumerevoli voci di dissenso e scoraggiare possibili rivolte o manifestazioni che, al contrario, nel Paese continuano a verificarsi in maniera diffusa e pacifica.
Per quanto riguarda lo stato di detenzione dei prigionieri, Hrana denuncia: «Le condizioni carcerarie sono terribili, con 47 casi di negligenza medica segnalati e 21 casi in cui non sono state disponibili informazioni sulla persona dopo il suo arresto, lasciando le famiglie all’oscuro del destino dei prigionieri a causa della mancanza di contatti»; oltre quindi subire aggressioni di ogni tipo, ai detenuti malati viene addirittura negata l’assistenza medica.
È il caso ad esempio di Sara Jahani, attivista per i diritti delle donne imprigionata nel carcere di Lakan, a Rasht, e affetta da sclerosi multipla. Nonostante la malattia e il peggioramento della condizione fisica della donna, le autorità carcerarie si sono rifiutate di trasferirla in una struttura medica, nagandole l’accesso a cure mediche specialistiche.
Ricordiamo che Jahani è stata condannata (assieme ad altri difensori dei diritti umani) nell’Agosto 2023 dalla Sezione 3 della Corte rivoluzionaria di Rasht per “cospirare contro la sicurezza nazionale” e per “appartenenza a un gruppo con l’intenzione di agire contro la sicurezza nazionale”, verdetto confermato il 28 Maggio 2024 dall’11ª Sezione della Corte d’appello rivoluzionaria di Rasht.
«Sebbene la sua pena detentiva sia stata temporaneamente rinviata alla fine di Luglio a causa delle sue condizioni di salute, Jahani rimane in carcere senza cure mediche adeguate, aggravando i suoi già seri problemi di salute» denuncia Hrana.
Preoccupante anche la vicenda di Afshin Baimani, prigioniero politico a Ghezel-Hesar (Karaj), condannato all’ergastolo e in carcere da oltre 24 anni, periodo nel quale ha sviluppato una malattia cardiaca a causa delle ripetute torture. Nonostante la sua malattia è stato privato di servizi medici adeguati.
«Il signor Baimani, che soffre di una malattia cardiaca, lunedì 7 Agosto ha avuto vertigini ed è svenuto a causa di un calo della pressione sanguigna. Cadendo a terra la sua testa ha subito una frattura, risultata sanguinante dopo aver colpito il muro. Durante gli esami il medico del carcere lo ha informato che avrebbe dovuto essere portato in ospedale per eseguire un’angiografia a causa dei coaguli di sangue perché, da un momento all’altro, avrebbe potuto avere un infarto. Il signor Baimani ha chiesto di essere mandato in congedo per malattia e curato sotto la supervisione del suo medico specialista, ma i funzionari della prigione hanno rifiutato tale richiesta» riporta sempre Hrana.
Inoltre l’agenzia denuncia che: «Gli ospedali in cui vengono mandati i prigionieri sono di pessima qualità e non esiste alcuna possibilità di trattamento in quanto il detenuto è perennemente sotto la supervisione di un ufficiale e in manette. Inoltre, dopo l’operazione, non consentono al paziente di riprendersi completamente».
La continua privazione delle cure mediche può essere considerato una violazione del diritto alla vita e alla salute, una delle tante violenze commesse dalla Repubblica del Terrore.
Credit foto di Khashayar Kouchpeydeh via Unsplash