Iran: il regime del silenzio. Giornalisti perseguitati e condannati

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Iran: il regime del silenzio. Giornalisti perseguitati e condannati

Elaheh Mohammadi e Niloofar Hamedi, le giornaliste che scrissero di Jina Mahsa Amini, sono state condannate a 5 anni di carcere. Ricostruiamo la vicenda giudiziaria.

13 Settembre 2022, Teheran. Jina Amini, originaria della provincia di Saqqez del Rojhelat, Kurdistan iraniano, si trova in vacanza con la sua famiglia nella capitale iraniana, mancano anche pochi giorni al 21 Settembre, giorno del suo 23esimo compleanno. Un compleanno che Jina non festeggerà mai, a causa di una ciocca di capelli che fuoriuscirà dallo hijab che indossa. Nella Repubblica islamica dell’Iran infatti chi trasgredisce la legge sull’uso dello hijab obbligatorio (basta anche un capello fuori posto o visibile) e del codice di abbigliamento viene punito molto severamente.

È a questo punto che Jina mentre si trova con il fratello vicino all’entrata di una stazione metro viene arrestata dalla polizia morale e condotta in una centrale di polizia per ricevere un “corso di rieducazione morale”, lì dopo alcuni minuti (come si vede in un video che ha fatto il giro del mondo) lamenterà un forte dolore alla testa e cadrà a terra.

Jina morirà il 16 Settembre, dopo 3 giorni di coma cerebrale causato dalle violente percosse subite dagli agenti di sicurezza mentre si trovava in custodia, e avvenute immediatamente dopo il suo arresto.

Lesione cerebrale con formazione di un edema, sanguinamento dalle orecchie, lividi al di sotto gli occhi, fratture facciali ed emorragie, così si presentava il corpo della giovane Jina, per le autorità iraniane invece la ragazza ha avuto un infarto e un attacco cerebrale attribuibile a un’operazione eseguita all’età di 8 anni per un tumore al cervello. Tumore e operazione sono state smentite categoricamente dalla famiglia.

Jina è stata uccisa dal regime iraniano e nessuno può asserire il contrario.

«Cara Jina, tu non morirai mai. Il tuo nome diventerà il nostro simbolo»
ژینا گیان تۆ نامری، ناوت ئەبێتە ڕەمز

C’ è scritto nella sua tomba, e mai frase fu più vera. Il nome Jina, che in lingua curda significa vita e che rimanda alla lotta delle donne curde “Jin-Jiyan-Azadî”, è infatti divenuto emblema della rivoluzione del popolo iraniano per la liberazione delle donne e di tutti i cittadini iraniani dalla dittatura sanguinaria del regime teocratico. A proposito va ricordato che Jina non ha mai potuto usare il suo vero nome a causa della forte discriminazione che il popolo curdo subisce dal regime della Repubblica islamica e che obbliga le persone del Kurdistan ad adottare nomi di Stato. Per questo motivo Jina ha dovuto assumere il nome Mahsa.

Elaheh Mohammadi e Niloofar Hamedi: le due giornaliste che scrissero di Mahsa

Dopo la morte di Jina Mahsa Amini, il regime iraniano ha cercato in ogni modo di insabbiare quanto accaduto, divulgando la falsa notizia che Jina era morta per cause naturali. La propaganda del regime del terrore però è stata messa a rischio dal lavoro di due giornaliste iraniane che coraggiosamente hanno deciso di scrivere di Mahsa. I loro nomi sono Elaheh Mohammadi e Niloofar Hamedi.

Niloofar Hamedi, reporter del quotidiano Shargh, è stata tra le prime a dare informazioni riguardo lo stato di Mahsa. Già giornalista attenta da tempo ai diritti delle donne, Hamedi decise di recarsi all’ospedale di Kasra (Teheran) per verificare di persona le condizioni della ragazza. All’ospedale, nella sala d’aspetto, Hamedi incontra i genitori di Jina Mahsa e proprio in quel frangente scatta loro una foto mentre si abbracciano.

Su questo le autorità erano state chiare: non pubblicare e scrivere nulla sul caso Mahsa. Niloofar Hamedi però procede con il proprio lavoro e tramite un articolo riferisce delle condizioni tragiche in cui si trova Amini, pubblicando nel suo canale Twitter (successivamente sospeso) la foto con i due genitori di Mahsa che si abbracciano. Hamedi sarà arrestata il 22 Settembre le accuse mosse contro di lei sono: cospirazione e ribellione contro la sicurezza nazionale e propaganda anti-nazionale.

Elaheh Mohammadi è invece una giornalista del Ham-Mihan, ed esattamente come la sua collega decide di occuparsi del caso di Mahsa. Mohammadi si reca a Saqqez nei giorni in cui si sta svolgendo il funerale di Jina. Oltre a documentare l’evento, la giornalista riesce anche a documentare l’attacco degli agenti di sicurezza alla celebrazione: dimostrando come il regime teocratico non abbia rispetto e pietà nemmeno dei morti.

Dopo aver pubblicato queste notizie, il 29 Settembre, Mohammadi viene incarcerata. Seguendo uno schema insito nella Repubblica islamica teso a colpire anche i famigliari dei cosiddetti “dissidenti”, dopo l’arresto di Elaheh, pure la sorella Elnaz, anch’essa giornalista, a inizio Febbraio verrà arrestata per essere rilasciata su cauzione qualche settimana più tardi.

Le accuse del regime contro le due giornaliste e alcune tappe dei processi

Fine Maggio 2023. Dopo mesi trascorsi in custodia nel carcere di Evin, per le giornaliste Elaheh Mohammadi e Niloofar Hamedi sono iniziati i processi nella sezione 15 del Tribunale della Rivoluzione di Teheran. Il processo di Mohammadi è iniziato il 29 Maggio, mentre per Hamedi il giorno dopo, il 30. A presiedere entrambi i processi il giudice Abolghasem Salavati, noto come il “Giudice dell’esecuzione” o “il Giudice della morte” (figura a cui sarà dedicato un mio prossimo articolo).

Le accuse rivolte contro le giornaliste sono per entrambe le stesse: “collaborazione con il governo ostile degli Stati Uniti” e “propaganda contro l’establishment”, le due giornaliste sono dunque accusate di aver messo a repentaglio la sicurezza del Paese tramite la diffusione delle loro notizie. Accuse a cui le due giornaliste hanno giustamente replicato ribadendo che stavano svolgendo il loro lavoro.

Come già ripetuto molte volte: anche questi due processi si sono rivelati “farsa”, in quanto le udienze sono avvenute a porte chiuse, sono durate pochissimo (meno di due ore) e senza che gli avvocati delle imputate abbiano potuto difenderle.

22 Ottobre 2023. Niloofar Hamedi e Elaheh Mohammadi vengono condannate a 7 e a 6 anni di carcere per aver collaborato con il governo ostile degli Stati Uniti, con l’aggiunta di altri 5 anni per entrambe per “aver agito contro la sicurezza nazionale” e un anno aggiuntivo per propaganda contro la Repubblica islamica dell’Iran. Questa sentenza preliminare poteva essere impugnata entro 20 giorni.

Ancora una volta va sottolineato il fatto che agli avvocati delle due giornaliste non è stata concessa la possibilità di difendere le proprie assistite, inoltre l’ingresso al tribunale è stato interdetto ai familiari.

14 Gennaio 2024. Dopo 16 mesi di prigionia nel carcere di Evin, Hamedi e Mohammadi, per decisione della Corte d’Appello della provincia di Teheran, sono state temporaneamente rilasciate dietro una cauzione di 10 miliardi di toman ciascuna (circa 200.000 dollari); è stato comunque vietato loro di lasciare il Paese e di svolgere attività giornalistica attraverso i media e Internet. Radio Farda informa che Ali Alqasimehr, capo della magistratura di Teheran, ha dichiarato: «la decisione di concedere il rilascio temporaneo alle giornaliste è stata presa a causa del protrarsi delle indagini e del processo di appello».

Un respiro di libertà che però è durato poco: appena uscite dal carcere le due giornaliste hanno infatti ricevuto subito una nuova denuncia. Il motivo? Essersi abbracciate in pubblico e essersi fatte fotografare senza hjiab.

11 Agosto 2024. Due corti d’appello di Teheran hanno ridotto le pene di Elaheh Mohammadi e Niloofar Hamedi. Dopo aver esaminato i loro ricorsi, le corti hanno assolto le giornaliste dall’accusa di collaborazione con gli Stati Uniti, mentre le altre accuse sono state confermate. In quell’occasione i loro avvocati hanno anche ricordato che a entrambe le giornaliste spetterebbe la grazia, in quanto nel 2023 la Guida Suprema Ali Khamenei aveva concesso un’amnistia in cui sono inclusi i reati per cui Mohammadi e Hamedi sono accusate.

Gli ultimi sviluppi giudiziari e la campagna a sostegno delle giornaliste

E arriviamo a oggi. Sabato 20 Ottobre 2024, riferisce DW Persian, è stato emesso un ordine esecutivo che ordina a Mohammadi e Hamedi di presentarsi entro cinque giorni al carcere di Evin per scontare le loro pene detentive. Non certo una notizia inattesa perché qualche giorno prima, il 14 Ottobre, Asghar Jahangir, portavoce della magistratura, senza nominare Hamedi e Mohammadi, in una conferenza stampa aveva dichiarato: «Due giornaliste sono state condannate a un anno di carcere per propaganda contro il regime e a cinque anni di carcere per raccolta e collusione contro la sicurezza nazionale», a quel punto non vi erano dubbi che la sentenza riguardasse Hamedi e Mohammadi.

In quest’occasione gli avvocati delle giornaliste hanno, ancora una volta, ribadito che avrebbero diritto di essere graziate in base all’amnistia del 2023.

Come avvenuto dopo la loro incarcerazione, anche in questo caso giornalisti, attivisti e difensori dei diritti umani hanno manifestato vicinanza e sostegno ad Hamedi e Mohammadi. Per questa occasione è stata scritta una lettera a Gholam-Hossein Mohseni Ejei, il capo della magistratura, per richiedere di sospendere l’esecuzione della pena detentiva a cinque anni di Elaheh Mohammadi e Niloofar Hamedi. La lettera è accompagnata da una raccolta firme che al momento conta più di 38.000 adesioni, tra cui anche quelle di molti giornalisti, artisti, registi e attivisti sociali.

L’appello corrisponde all’hashtag: توقف_حکم_زندان_خبرنگاران# (Sospensione della pena detentiva per i giornalisti).