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23 Novembre 2024Iran. Ritratto di Abolghassem Salavati, il Giudice della morte
Il “Giudice della morte” Salavati, responsabile di gravi violazioni dei diritti umani, spietatamente e con un sorriso ordina condanne a morte
«Abolghassem Salavati è una persona calma ed emette sentenze pesanti come la pena di morte con un sorriso sul volto. I suoi processi sono molto rapidi e a volte durano meno di cinque minuti» (Ramin Chavoshi).
Abolghassem Salavati. Dietro questo nome si cela uno degli uomini più crudeli dell’Iran. Un uomo che, con la velocità di un battito di ciglia, manda alla forca un essere umano innocente. Salavati emette sentenze di morte come se fosse l’attività più naturale al mondo e per questo è stato soprannominato “Giudice dell’esecuzione”, “ Giudice della morte” o “Khalkhali II‘”.
Salavati, nominato da Saeed Mortazavi (noto giudice della Corte Rivoluzionaria Islamica), Capo della sezione 15 del Tribunale rivoluzionario di Teheran nel 2002, ha nel corso degli anni pronunciato pesantissime sentenze, tra cui molte condanne a morte, a prigionieri politici, attivisti per i diritti umani e manifestanti pacifici. È oltretutto responsabile di gravi violazioni dei diritti umani, sia durante la detenzione dei prigionieri condannati che durante i cosiddetti processi farsa.
Tra le sue ultime sentenze di condanne a morte ricordiamo, ad esempio, quella a Varisheh Moradi, attivista per i diritti umani. Colpevole, secondo il regime teocratico, di “baghi” (ribellione armata) e di aver messo a rischio la sicurezza dell’Iran. Note sono anche le severe sentenze di Salavati contro le giornaliste che per prime parlarono della morte di Jina Mahsa Amini, Elaheh Mohammadi e Niloofar Hamedi. Prima però di analizzare la figura del “Giudice della morte” è importante capire cosa sono i Tribunali rivoluzionari e come funzionano.
I Tribunali rivoluzionari: un sistema per eliminare gli oppositori
Il sistema della Corte Rivoluzionaria Islamica è stata istituita attraverso un decreto dall’ayatollah Ruhollah Khomeini nel 1979. La funzione di questi Tribunali rivoluzionari دادگاه انقلاب , che sono divisi in sezioni, è quella di eliminare e perseguitare gli oppositori del regime. Gli imputati che vengono giudicati in questi tribunali sono infatti perlopiù dissidenti politici, attivisti e giornalisti, in pratica coloro giudicati di baghi (ribellione armata), di moharebeh (insultare i leader del governo, guerra contro dio), di efsad-fil-arz (corruzione sulla Terra) e per aver messo a rischio la sicurezza interna ed esterna del Paese. Talvolta questi tribunali hanno anche giudicato veri o presunti contrabbandieri e trafficanti di droga.
È interessante notare come i tribunali rivoluzionari completino il ruolo di organi parastatali come i Basij, organizzazione paramilitare formatasi anch’essa subito dopo la rivoluzione, e fedelissima al leader supremo Ayatollah Ali Khamenei e sotto il comando dell’IRGC.
Caratteristica di questi Tribunali sono i “processi farsa”, tant’è che frequentemente si parla di “una totale parodia della giustizia”, in quanto i processi si svolgono a porte chiuse, senza dare possibilità effettiva agli avvocati di difendere il proprio assistito, e la condanna è già scritta. Anche l’uso della violenza durante la detenzione dell’imputato è un tratto caratteristico di questi tribunali, l’obiettivo è infatti quello che l’imputato confessi e mostri pentimento.
La sezione 15, quella appunto con a capo Salavati, è la sede principale dei procedimenti giudiziari e delle dure condanne nei confronti di giornalisti, prigionieri politici, utenti internet e membri di minoranze etniche e religiose.
Abolghassem Salavati: il “Giudice della Morte” e i suoi metodi spietati
Nato nel 1967, Salavati per il trattamento inumano (criminale si potrebbe dire) che riserva agli imputati e ai detenuti, e per le sue numerose e sbrigative sentenze di morte, è soprannominato “Giudice della Morte”. Ma chi è Abolghassem Salavati?
L’Ong United for Iran riferisce che Salavati ha prestato servizio nei Basij durante la guerra Iran-Iraq del 1980-88, periodo in cui sul fronte occidentale resta ferito. Nel 1987 inizia la sua carriera nella polizia giudiziaria del Kurdistan, mentre nel 1991, con la fusione delle forze dell’ordine e della polizia giudiziaria, inizia la sua carriera in magistratura come sostituto procuratore e giudice a Sanandaj. Diventerà noto al pubblico a causa dei processi post-elettorali del 2009 (periodo del Movimento Verde) trasmessi, per quell’occasione, in televisione.
Nonostante Salavati venga definito giudice, non è dato sapere se abbia una laurea in giurisprudenza. Rad Sanjabi, ex direttore esecutivo del Centro iraniano di documentazione sui diritti umani, ha sottolineato che Salavati non conosce nulla di diritto. Anche la sua vita privata è dominata dalle ombre: sua moglie, Parvin Shiri, originaria di Kermanshah, all’età di 40 anni si è ritirata dall’università in cui lavorava a causa del disagio psicologico causato dalle rivelazioni delle macabre sentenze del marito (fonte Iran Focus). Shiri ha trascorso 9 anni in una struttura di salute mentale ed è deceduta nel Dicembre 2023. Salavati appare anche sempre accompagnato da sette guardie del corpo ed è noto per portare con sé due pistole.
Senza esagerare si può dire che “la firma” di Salavati è una quasi certa condanna a morte dell’imputato. Imputato che, come già anticipato in precedenza, durante il periodo di detenzione è costretto a subire una violenza sistematica da parte degli agenti di sicurezza. Violenza che si protrae anche nel corso del processo dove Salavati riserva un trattamento duro, violento e illegale (si parla anche di molestie sessuali), non solo agli imputati, ma anche agli avvocati (ove presenti ovviamente).
A tal proposito Justice4Iran accusa Salavati di violare costantemente i diritti umanidurante i suoi processi, perché sostanzialmente:
– Calpesta i diritti degli imputati (e degli avvocati)
– Non garantisce un equo processo
– Emette sentenze detentive ai cittadini (baha’i, dervisci) a causa del loro credo religioso
– Impone dure condanne ai cittadini stranieri o con doppia cittadinanza tenuti in ostaggio dal regime iraniano
A fronte di quanto fino ad ora esposto possiamo affermare che oltre essere un “Giudice Boia”, Salavati incarna perfettamente i principi della Repubblica islamica, cui scopo è instillare terrore e attuare violenza contro i cittadini dissidenti e tutti coloro che vogliono vivere liberi. È importante infatti ricordare che Salavati ha ripetutamente calpestato i diritti degli imputati in vari modi. Lui stesso, ad esempio, ordina che gli imputati in attesa di giudizio vengano rinchiusi nella prigione di Evin e sottoposti a:
– isolamento prolungato
– torture fisiche e psicologiche
– violenze o molestie sessuali
– iniezioni di droghe o farmaci
– minacce di essere uccisi o che sarà fatto del male a qualche loro familiare.
Ai prigionieri sono inoltre negate le cure mediche e le visite dei loro familiari, nonché spesso anche quelle dell’avvocato difensore.
Omid Montazeri, giornalista arrestato durante l’Ashura di fine Dicembre 2009 ha riferito che Salavati, durante una sessione del suo processo, gli aveva detto: «La sessione del processo è durata così a lungo, che il suo avvocato ha dovuto andarsene prima a causa di un precedente impegno di lavoro e presenterà la dichiarazione della difesa più tardi». Il fatto è che Montazeri non non aveva affatto un avvocato difensore.
Tipici del Tribunale rivoluzionario, e in special modo della sezione 15, sono i cosiddetti processi a porte chiuse e brevi, della durata anche di pochi minuti, in cui sono usate misure extralegali per esercitare pressioni sull’imputato e farlo così confessare. Salavati nega agli imputati l’accesso agli avvocati scelti o a qualsiasi consulente legale, e talvolta partecipa agli incontri. Non è nemmeno raro che gli stessi imputati non siano informati delle accuse mosse contro di loro. Frequentemente sono assenti prove o testimoni, nonostante ciò Salavati condanna spesso gli imputati a morte o a lunghe pene detentive, basandosi esclusivamente sui rapporti del ministero dell’intelligence iraniano.
A fare da cornice a un quadro già terribile di per sé, è il fatto che Salavati medesimo non cela agli imputati il loro terribile destino.
È il caso del prigioniero dimenticato, Ahmadreza Djalali che, informa Center for Human Rights in Iran, il primo giorno del processo fu minacciato da Salavati che sarebbe stato condannato a morte.
Alcuni casi giudicati da Salavati
È veramente impossibile citare tutti i casi in cui Salavati ha presieduto come giudice. Purtroppo la sua “fama” oltrepassa i confini dell’Iran in quanto ha condannato a morte e ha imposto detenzioni prolungate a numerosi cittadini americani e occidentali tenuti in ostaggio dal regime teocratico. A questo proposito si può dire che la Repubblica islamica trova in Salavati un fedelissimo sostenitore della politica degli ostaggi.
Salavati ha ordinato condanne a morte per moltissimi oppositori politici, attivisti civili, studenti e manifestanti, fossero loro uomini o donne. È il 1º Novembre 2022. Mohsen Shekari è a processo per aver partecipato alle Proteste per la morte di Jina Mahsa Amini. A presiedere l’udienza è Abolghassem Salavati. Shekari viene giudicato colpevole per il ferimento di un poliziotto e di moharebeh (guerra contro Dio), accusa che prevede la pena di morte. All’alba dell’8 Dicembre, a 23 anni, Shekari viene giustiziato. È il primo di una lunga serie di condannati a morte per la rivolta scatenatasi nel Settembre 2022.
Alle manifestazioni partecipa anche Mohammad Ghobadlou, un ragazzo affetto da un disturbo bipolare. Nonostante la sua malattia, egli viene ugualmente accusato di efsad-fil-arz e di omicidio per aver investito il funzionario Farid Karampour Hasanvand e, sempre in quell’incidente, di aver procurato il ferimento di altri 5 agenti. La madre dell’imputato, Maasumeh Ahmadi, attraverso un video comunicò che il figlio aveva saltato i trattamenti medici diversi mesi prima del suo arresto; Salavati ignora questo fatto, come ignora il fatto che Ghobadlou sia malato, e lo condanna a morte. Il 23 Gennaio 2024 Ghobadlou viene giustiziato: aveva 23 anni ed è stato l’undicesimo manifestante giustiziato associato al movimento nazionale “Donna – Vita – Libertà”.
Novembre 2019. In Iran avviene un improvviso aumento del prezzo della benzina che provoca una rivolta nazionale; rivolta in cui si chiedono anche le dimissioni degli alti funzionari. A queste proteste partecipano anche Saeed Tamjidi, Mohammad Rajabi e Amirhossein Moradi. Nel Luglio 2020 Salavati condanna i tre imputati a morte con l’accusa di “pericolo per la sicurezza nazionale” e “distruzione e incendio di proprietà pubbliche con l’obiettivo di sfidare il sistema politico della Repubblica islamica”. Tuttavia, a seguito delle pressioni internazionali, la Corte d’appello ribalta il verdetto e i tre prigionieri, tutti sui vent’anni, vengono rilasciati. Alcuni difensori dei diritti umani, riporta Radio Farda, hanno asserito che le condanne a morte inflitte ai tre uomini avevano lo scopo di intimidire i futuri manifestanti.
Ruhollah Zam, giornalista e dissidente politico, è costretto a rifugiarsi in Francia a causa delle sue partecipazioni alle proteste post-elettorali del 2009. Nell’Ottobre 2019 viene invitato a partecipare ad un convegno in Iraq: un’operazione di inganno dell’intelligence iraniana per attirarlo in Iraq. Il 14 Ottobre, proprio mentre si trova in Iraq, viene rapito dalle Guardie rivoluzionarie iraniane e riportato con la forza in Iran. Per i successivi nove mesi a Zam sarà vietato avere qualsiasi contatto con i suoi avvocati e con la sua famiglia.
Dopo un processo farsa celebrato dalla sezione 15 del Tribunale rivoluzionario di Teheran, nel Giugno 2020 viene condannato a morte per “efsad-fil-arz” in relazione al suo canale di notizie AmadNews. Secondo le autorità iraniane, riporta Amnesty International Italia, il lavoro giornalistico di Zam aveva incluso: “spionaggio a favore di Israele e della Francia”, “cooperazione con lo stato ostile statunitense”, “reati contro la sicurezza nazionale” e “propaganda contro il sistema”.
All’alba del 12 Dicembre 2020 Ruhollah Zam viene giustiziato nella totale segretezza.
In tempi recenti la tragica storia di Ruhollah Zam è riemersa dalle cronache in connessione con un’altra esecuzione avvenuta qualche settimana fa, e sempre ordinata da Salavati: quella del cittadino iraniano-tedesco. residente negli Stati Uniti dal 2003, Jamshid Sharmahd. È Luglio 2020 Sharmahd si trova in un hotel a Dubai in attesa di un volo in coincidenza per l’India, quando all’improvviso la sua famiglia perde i contatti con lui. Sharmahd è infatti stato rapito da agenti del governo iraniano e portato con la forza in Iran. La notizia del suo arresto sarà annunciata dalle autorità iraniane soltanto ad Agosto.
Appena portato in Iran Sharmahd viene processato e condannato a morte, l’accusa è “efsad-fil-arz per aver pianificato e diretto attacchi terroristici”. Per la Repubblica islamica Sharmahd è infatti a capo dell’Assemblea del Regno dell’Iran (KAI), anche conosciuta come Tondar (tuono) o in farsi Anjoman-e Padeshahi-ye: un piccolo gruppo di dissidenti con sede negli Stati Uniti che si proponeva di restaurare la monarchia iraniana caduta in seguito alla rivoluzione del 1979. Sharmahd è appunto accusato di aver compiuto vari attentati per conto del KAI tra il 2005 e il 2010, tra cui uno in una moschea di Shiraz nel 2008 in cui rimasero uccise 14 persone; secondo queste accuse nel Febbraio 2023 è stato condannato a morte, conferma della sentenza che è giunta nell’Aprile 2023.
Il detenuto ha sempre negato il suo coinvolgimento negli attacchi attribuitigli dalle autorità iraniane, dichiarando di essere solo un portavoce.
Nonostante questo nella totale segretezza il 28 Ottobre Jamshid Sharmahd è stato giustiziato.
Anche il Premio Nobel per la pace 2023 Narges Mohammadi, nei suoi molti processi, ha avuto a che fare con la faccia da bronzo di Salavati; in particolar modo nel Maggio 2016 quando la Sezione 15 della Corte Rivoluzionaria di Teheran l’ha condannata a un totale di 16 anni di prigione per: “fondazione del gruppo illegale LEGAM” , “assemblea e attività contro la sicurezza nazionale” e “propaganda contro l’establishment”. Recentemente invece è toccato a un’altra attivista, Varisheh Moradi. La prigioniera politica Moradi, attualmente detenuta nella prigione di Evin, è stata condannata a morte il 10 Novembre per accuse di baghi dalla Sezione 15 della Corte rivoluzionaria di Teheran. Il verdetto è stato emesso sotto la supervisione del giudice Abolghassem Salavati.
Le sanzioni UE e statunitensi contro Abolghassem Salavati
Il 12 Aprile 2011 il Consiglio europeo, ai sensi della decisione 2011/235/PESC, ha inserito Abolghassem Salavati all’interno del provvedimento che ha emanato sanzioni contro “persone responsabili di gravi violazioni dei diritti umani in Iran”. In base a tale designazione, tutti i beni di Salavati nelle giurisdizioni degli Stati membri dell’UE devono essere congelati, inoltre non gli può essere fornito “nessun fondo o risorsa economica”. Secondo la dichiarazione dell’Unione Europea, la gestione dei casi elettorali nell’estate del 2009 e l’emissione di condanne a morte e detenzioni a lungo termine sono tra le ragioni di questa sanzione.
Oltre all’UE anche gli Stati Uniti hanno sanzionato Salavati per violazioni dei diritti umani. Il 19 Dicembre 2019 il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti, ai sensi dell’Ordine Esecutivo 13846, ha sanzionato Abolghassem Salavati a causa delle gravi ed perpetuate violazioni dei diritti umani. Secondo questa sanzione, i possibili beni di Salavati in America sono sequestrabili e gli è vietato il suo ingresso negli USA, è inoltre proibito ai cittadini statunitensi di condurre qualsiasi transazione con lui, pena il congelamento dei loro stessi beni.