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Acqua, Italia record di perdite di rete

Si stimano al 42% e siamo secondi anche per prelievi di acqua ad uso potabile, solo dal fiume Po viene prelevato il 30,5% del fabbisogno nazionale. 

I mesi estivi comportano un aggravamento dello stress idrico a cui l’intero territorio europeo è periodicamente sottoposto. Uno scarto fra la domanda e l’offerta della risorsa che si fa sempre più ampio e difficile da colmare. A ciò si aggiunge che gli utilizzi ai fini agricoli e industriali sono sempre più esigenti rispetto al passato: entro il prossimo ventennio, il loro crescente impiego farà aumentare, secondo l’Ocse, il consumo complessivo del 55% rispetto ai livelli del 2000. 

Perdite di acqua nella rete, maglia nera all’Italia

In questo scenario generale, la situazione specifica dell’Italia è ulteriormente esasperata da infrastrutture carenti e vecchie, con alcune di esse risalenti addirittura a mezzo secolo fa, secondo i dati dell’ultimo rapporto Ambrosetti. Il risultato è drammaticamente scontato: dagli oltre cinquecentomila chilometri di rete distribuiti sul territorio nazionale, si stima una perdita pari al 42% dell’acqua immessa nel ciclo, secondo Istat una quantità pari a 157 litri al giorno per abitante. A livello europeo, peggio di noi fanno solo l’Irlanda e la Bulgaria. Distanti di molto i primatisti Paesi Bassi, Germania e Danimarca, con perdite quantificate sotto il 10%.

Prelievi di acqua ad uso potabile, Italia da record

Restando nell’ambito nei confronti europei, l’Italia è il secondo Paese per prelievi di acqua ad uso potabile, con un valore pari al doppio della media europea. Si tratta di un dato che comprende tutti i principali settori d’uso, l’irrigazione, l’uso civile, il settore industriale. Solo dal fiume Po viene prelevato il 30,5% del fabbisogno nazionale. 

Il paradosso: tariffa bassa, bassi investimenti

Questo dato messo insieme al fatto che la tariffa italiana è tra le più basse dell’Unione, spiega il rapporto tutto particolare fra il nostro Paese e la risorsa naturale più primaria di tutte. Mantenere la tariffa ai minimi è la scelta più popolare, ma che si tramuta in una insufficienza di investimenti nel settore, 56 euro all’anno per abitante, contro gli 82 euro della media europea. Per mettersi in marcia allo stesso ritmo dei nostri partner continentali servirebbero 1,3 miliardi extra di investimenti all’anno. Il gap è impietoso anche all’interno della stessa Italia, con evidenti differenze fra le diverse aree geografiche, per quanto riguardo le perdite e gli investimenti. A contribuire alla diversa capacità di investimento sono le gestioni industriali e quelle comunali, cosiddette “in economia”, dove gli enti locali si occupano direttamente del servizio idrico, diffuse soprattutto al Meridione.

Ci sono 2400 gestori, un guazzabuglio 

La presenza di 2400 gestori sul territorio nazionale non aiuta gli obbiettivi di svecchiamento e di potenziamento della rete, sanciti anche dal Pnrr. Nel frattempo, secondo l’ultimo rapporto di Utilitalia, il nostro Paese si presenta altamente vulnerabile rispetto all’influenza dei cambiamenti climatici sul ciclo idrologico. Con invasi vecchi di 60 anni capaci di trattenere non oltre l’11% dell’acqua piovana e un riuso diretto delle acque reflue depurate in agricoltura fermo al 4% il quadro che abbiamo dinanzi è impietoso. Senza contare che ad oggi nel nostro Paese, l’acqua è la risorsa naturale più intaccata dalla contaminazione dei suoli e dagli sversamenti, costituendo inoltre una emergenza ambientale e sanitaria. Sono oltre 16 mila i procedimenti giudiziali in corso in materia, fa sapere Enea. A ciò vanno aggiunti i servizi di depurazione e fognatura drasticamente sotto la media, con una disarmante sproporzionalità del dato ai danni dei territori del Sud. Un quadro che ci racconta come questa sia una delle priorità assolute su cui le amministrazioni centrali e locali hanno il dovere di intervenire per garantire anche quei diritti di cittadinanza e quello sviluppo sostenibile di cui tanto si parla, troppo spesso soltanto per strappare applausi. In questa direzione va il Pnissi, Piano nazionale per gli interventi nel settore idrico, licenziato il 29 Maggio da una apposita cabina di regia insediata presso il Ministero delle Infrastrutture. Sul piatto ci sono 12 miliardi per rilanciare il sistema idrico nazionale, sulla base delle indicazioni raccolte l’anno precedente attraverso una piattaforma che metteva insieme i fabbisogni presentati da Regioni, Province autonome, Autorità di distretto dei bacini idrografici. Trovare il bandolo in questa matassa di mala gestione e dispersione degli interventi ha il sapore di un’ardua impresa. Occorre immaginare sistemi di governance più efficienti, mettendo innanzitutto in collegamento gli Ato, ambiti territoriali ottimali, poi procedendo ad una profonda digitalizzazione dell’intera filiera dell’acqua. 

Pochi i contatori Smart meter

Ad esempio, soltanto il 4% dei nostri contatori dispongono della tecnologia degli smart meter, dodici volte la media europea. Portarci a quel livello permetterebbe ad esempio di risparmiare fino a 2,4 miliardi l’anno. È evidente come vada superato l’approccio novecentesco ispirato da Cassa Depositi e Prestiti e dalla Cassa del Mezzogiorno, che ha contraddistinto la visione di questo mercato e che ha permesso alle generazioni successive di vivere di rendita, con la convinzione che l’acqua potabile fosse inesauribile. Senza una semplificazioni degli investimenti non si riusciranno mai a portare a compimento quelle infrastrutture strategiche come interconnessioni delle reti, grandi invasi multifunzionali e piccoli invasi a uso irriguo. A tutto ciò naturalmente andrebbero integrate azioni per promuovere l’uso efficiente dell’acqua, incentivando la riduzione delle perdite di rete e i comportamenti virtuosi.