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di Salvatore Luigi Baldari
Nella prima puntata della nostra inchiesta dedicata ai giacimenti minerari dell’Afghanistan, ne abbiamo analizzato le dinamiche economiche, dopo aver provato a scattare una fotografia del tesoro, nascosto nel sottosuolo del Paese.
Ci eravamo lasciati con la profezia dell’ultimo Presidente afghano, Asfhar Gahni, il quale aveva parlato di “maledizione delle risorse”. Dopo aver letto la prima parte dell’inchiesta, probabilmente verrebbe da chiedersi, come mai gli Stati Uniti, dopo vent’anni di stanziamento fra i confini afghani, con migliaia di vittime e almeno due mila miliardi di dollari investiti, lo abbiano abbandonato così in fretta e furia, soprattutto in un momento storico di importante carenza di materia prime.
Una prima attenuante, non troppo ammissibile, potrebbe essere il rammentare come vent’anni fa non eravamo in una situazione di criticità nel reperimento di risorse, così come quella odierna, né tantomeno i rapporti commerciali con la Cina, che deteneva gran parte di tali riserve, erano così tesi.
I russi conoscono il sottosuolo afghano
Alla fine degli Anni Sessanta del Novecento, erano stati i sovietici a svolgere un minuzioso lavoro di indagine dei giacimenti presenti nel sottosuolo e, questo enorme patrimonio di informazioni, venne gelosamente nascosto dagli scienziati afghani, dopo la crisi dell’Urss del 1989. Proprio in quegli anni, erano soltanto due le aziende estrattive in grado di operare sul territorio, aziende in ogni caso sotto l’egida del governo sovietico. Questo è uno dei motivi per cui, al loro arrivo nel 2001, gli statunitensi si ritrovarono, fra le mani, mappe e documenti insufficienti o poco leggibili. Ciononostante, gli Stati Uniti hanno cercato di rendere il Paese attrattivo per investimenti esteri privati, riscontrando, però diverse difficoltà.
Innanzitutto, c’è da considerare la variabile della sicurezza. Le incursioni dei talebani si inseriscono in un contesto già minato dalla coesistenza di una miriade di tribù e gruppi locali, sempre in lotta fra loro, oltre che dalla ingombrante presenza dell’Isis.
Le scarse infrastrutture dell’Afghanistan
Un secondo aspetto da osservare è che l’Afghanistan non dispone di una rete viaria, né tantomeno ferroviaria, capillare e a comoda percorribilità. Soprattutto, non gode di sbocchi sul mare. Un problema rilevante è anche la sofferenza di infrastrutture energetiche, fondamentali per garantire approvvigionamento al tessuto industriale.
Fra queste, la principale, è la carenza di acqua, cui vanno incontro periodicamente diversi distretti del Paese. L’acqua nei processi di raffinazione dei metalli è vitale.
Non va trascurata l’assenza di una cornice legislativa adeguata a favorire investimenti stranieri, che si aggiunge ad una classe dirigente con conoscenze e competenze nel settore dell’industria estrattiva, decisamente insufficienti.
Le mire della Cina sull’Afghanistan
Con la riconquista dell’Afghanistan da parte dei talebani, concretizzatasi il 15 Agosto 2021 e la conseguente ritirata di Stati Uniti ed alleati, sembrerebbe che questo potenziale di risorse minerarie, sia finito sotto le mire della Cina.
Una mossa quasi obbligata, se si considera che essa già controlla la maggior quota dell’estrazione di terre rare a livello globale, per dar consistenza ad un progetto di influenza economica e geopolitica, immaginato per i prossimi decenni, quelli imperniati intorno alle transizioni ecologiche e digitali, di cui proprio terre rare e minerali ne rappresentano le indispensabili risorse.
Il passo del Wakhan
Grazie al passo del Wakhan, un varco di duecentocinquanta chilometri e largo appena sessanta, Cina e Afghanistan sono confinanti, anche se si tratta di un’area ad alta quota, a tratti inaccessibile e impraticabile, al punto da apparire inadatta allo sviluppo di vie di collegamento fra i due territori. La continua instabilità afghana ha portato la Cina ad assumere un ruolo politicamente attivo, nell’area. Innanzitutto ha favorito la ripresa delle diplomazie fra Afghanistan e Pakistan, successivamente ha invitato le autorità afghane ad aderire al corridoio economico Cina-Pakistan. Eventualità che potrebbe implicare anche una presenza militare nel corridoio di Wakhan, ipotesi decisamente realistica, considerando il ritiro Nato dall’Afghanistan. La politica economica estera di Xi Jinping, come noto ai più attenti osservatori, è sempre orientata, in prima battuta, alla realizzazione di nodi infrastrutturali, vie di trasporto e collegamenti logistici, da annoverare nella ormai celebre Nuova Via della Seta.
Va rievocato, però, un episodio del 2007, che vide coinvolta la compagnia statale cinese Mcc, la quale dopo aver ottenuto il diritto di estrazione nel secondo giacimento più grande al mondo di rame, a venti miglia da Kabul, per un valore di tre miliardi di dollari, fu costretta ad interrompere le attività, a causa dei razzi sparati proprio dai talebani. Un episodio che evidentemente, non ha scalfito le ambizioni del Dragone. Basti ritornare indietro di due mesi, quando a poche ore dalla presa di Kabul, la portavoce del Ministero degli Esteri cinese, Hua Chunying, ha dichiarato che Pechino era pronta a “cooperare amichevolmente”.
Non va dimenticato, naturalmente che anche i cinesi troveranno le stesse criticità riscontrate dagli americani negli ultimi due decenni. Per essere colmato, questo allettante gap infrastrutturale e manageriale richiederebbe investimenti e stabilità politica, ad oggi, purtroppo soltanto un miraggio.
Un miraggio che rende bene l’idea della complessità, aleggiante intorno all’ambizione di creare un’industria estrattiva in Afghanistan, proporzionale alle risorse che custodisce.
E che ne fanno un forziere maledetto, ricco di tesori, ma che nessuno è riuscito ancora ad aprire.