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16 Dicembre 2025Bulgaria, che cosa succede
La cortina di fumo degli annunci diplomatici e i protocolli formali dei vertici europei non possono più nascondere la cruda verità: il cinismo politico e la corruzione endemica stanno divorando le fondamenta delle democrazie post-sovietiche e la Gen-Z, la generazione della connessione totale, ha trovato la sua voce per denunciare il tradimento. Quell’angolo d’Europa incastonato tra i Balcani e il Mar Nero, erede di un passato bizantino e ottomano, terra di frontiera e crocevia geopolitico, negli ultimi giorni si è trasformata nella cicatrice pulsante di un fallimento sistemico.
La caduta del governo Zhelyazkov non è un semplice scossone politico, ma il segnale, deflagrante, che la ribellione giovanile, già esplosa nelle periferie globali, ha raggiunto il cuore dell’Unione Europea.
È la Bulgaria, membro dell’Unione dal 2007, con un cammino caratterizzato da una successione di tentativi falliti di stabilizzazione. Figlia della dissoluzione del blocco sovietico, il Paese non è mai riuscito a sradicare le radici della nomenklatura comunista, prontamente tramutatasi in una rete di clan familiari e oligarchie, che ha instaurato legami diretti o indiretti anche nei partiti moderni non-socialisti e capace di influenzare settori economici chiave e il sistema giudiziario, rendendo difficile una vera riforma democratica e anti-corruzione. Negli ultimissimi anni, in particolare, il Paese si è rivelato un vero e proprio lazzaretto politico: dal 2021, il popolo bulgaro è stato chiamato alle urne per ben sette elezioni anticipate. Un numero che da solo testimonia una caducità istituzionale cronica, dove ogni leader è destinato a essere esautorato, talvolta dal popolo altre dai partiti di coalizione, prima di poter completare il mandato.
Questa volta, la scintilla che ha fatto esplodere la polveriera è stata una manovra di bilancio giudicata insostenibile e iniqua, la quale fra le sue misure prevedeva un aumento delle tasse per finanziare il pubblico impiego.
Le proteste dei più giovani
L’apice della protesta si è raggiunto nella grande manifestazione di Sofia del 10 dicembre, dove decine di migliaia di cittadini, molti dei quali giovanissimi, hanno sfidato le istituzioni, con un corteo partito dalla sede dell’Università. Il pretesto specifico, ovvero la manovra finanziaria è solo il sintomo di una malattia sistemica, dove l’élite continua a sacrificare il benessere comune sull’altare della propria sopravvivenza.
La Generazione Z bulgara
La Generazione Z bulgara non è sola in questo gironedantesco di frustrazione e rabbia. La sua azione si inserisce in un’onda globale che abbiamo già avuto modo di analizzare in queste settimane.
In Nepal, i giovani hanno usato i social per denunciare lo stile di vita sfarzoso dei politici e dei loro parenti, portando alla caduta del Primo Ministro. https://www.laredazione.net/nepal-cosa-sta-succedendo/
In Madagascar, la ribellione giovanile, attraverso la rete, hanno spinto il Presidente Andry Rajoelina alla fuga e all’instaurazione di un Governo dei militari. https://www.laredazione.net/madagascar-la-rivolta-dei-giovani-africani/
In Perù, lo scandalo del RolexGate ha dimostrato come la sfiducia sia un fallimento morale prima che istituzionale. https://www.laredazione.net/peru-il-rolex-gate-colpisce-la-presidente-boluarte/
La ribellione dei giovani bulgari, tuttavia, ha soprattutto assimilato l’eco della vicina Serbia. Qui da mesi, gli studenti di Belgrado sono il motore di un vasto movimento di protesta, innescato dalla tragedia del crollo della pensilina di Novi Sad e amplificato dalla corruzione dilagante e l’autoritarismo del presidente Aleksandar Vučić.
Quella serba è una mobilitazione che si rifiuta di affiancarsi all’opposizione tradizionale, manifestando una sfiducia totale verso l’intera classe politica e chiedendo giustizia e trasparenza in modo radicale. L’influenza di queste proteste incrociate è innegabile: i giovani bulgari vedono nei coetanei serbi uno specchio della propria lotta, comprendendo che il fallimento è un destino condiviso nei Balcani, indipendentemente dalla formale appartenenza o meno all’Unione Europea.

La Generazione Z sta urlando che la democrazia non è solo l’atto formale del voto, ma un contratto sociale che le istituzioni non stanno più onorando.
L’instabilità politica della Bulgaria getta un’ombra inquietante anche sul suo destino economico, in particolare sull’obiettivo dell’ingresso nell’Area Euro.
Il Paese è prossimo a diventarne il ventunesimo membro, con l’adesione formalmente prevista per il 1° Gennaio 2026. L’Euro dovrebbe rappresentare un baluardo di stabilità e un veicolo di investimenti, affrancandolo dal rischio di crisi valutarie.
Tuttavia, il quadro valoriale di questa transizione è avvelenato dalla paura.
Sondaggi recenti indicano che circa la metà dei cittadini è contraria all’abbandono del lev. Il timore non è economico in senso stretto, ma morale: la paura è che l’introduzione dell’Euro non porti stabilità, ma diventi l’ennesima occasione per arrotondamenti speculativi e un aumento dei prezzi, a vantaggio dei soliti clan di potere e a danno della popolazione già provata. L’élite, che non è riuscita a garantire la stabilità politica in sette elezioni, è credibile quando promette di tutelare il cittadino comune dalle speculazioni finanziarie?
L’Europa, nel suo silenzio rassegnato e protocollare, osserva un membro che rischia di annegare il proprio dramma istituzionale nella statistica, fornendo un monito a tutto il continente: la realpolitik che chiude un occhio sulla corruzione in nome dell’allineamento formale non può reggere all’impatto della rabbia popolare.
Dopo la Guerra Fredda, l’allargamento a Est dell’Unione Europea era percepito come un imperativo geopolitico e di sicurezza per consolidare la democrazia e l’economia di mercato nell’ex blocco sovietico. La velocità dell’integrazione era considerata più importante della sua perfezione, sperando che il processo si sarebbe completato dopo l’adesione. Questa scommessa non ha dato i frutti sperati in tutti i Paesi e ha portato alla creazione di un problema di corruzione sistemica all’interno dell’Unione stessa, alimentando la critica che l’integrazione sia stata data per scontata a discapito della trasparenza.
Non solo Bulgaria, infatti, negli ultimi anni, le istituzioni di Bruxelles si sono scontrate con l’Ungheria (e in passato con la Polonia) a causa delle regressioni sullo Stato di Diritto e della corruzione di alto livello. Anche per la Romania la Commissione Europea riconobbe che all’epoca dell’adesione non fosse pronta per la riforma giudiziaria e la lotta alla criminalità organizzata.
Adesso che la “storia” è tornata ad affacciarsi sul Vecchio Continente, con le minacce esplicite propagandate quotidianamente della Federazione russa, le vulnerabilità interne dei Paesi dell’Est Europa amplificano ulteriormente l’urgenza e la gravità della situazione.
Di allargamento dell’Unione Europea, inoltre si continua a parlare.
Il percorso di adesione dell’Ucraina è accelerato e dettato da un imperativo quasi morale, per il sostegno espresso in questi anni. Il consolidamento incompiuto dei sei Paesi balcanici in coda per l’adesione a Bruxelles, prima o poi andrà affrontato per non lasciare un “vuoto geografico” nel cortile dell’Ue e della Nato.
In tutti questi casi, l’Unione Europa si trova nuovamente nel suo dilemma perenne: se non accetta questi Paesi, li espone all’influenza russa, cinese o turca; se li accetta troppo in fretta, compromette la qualità interna dell’Unione, specialmente per quanto riguarda lo Stato di Diritto e l’anti-corruzione. Per non dimenticare gli equilibri economici, come nel caso del delicato capitolo delle politiche agricole, con riferimento all’Ucraina.
La crisi bulgara è la prova definitiva che la Generazione Z ha compreso il paradosso e vuole indicare la rotta.
Non chiede un cambio di nome al potere, ma un totale rinnovamento della classe politica e del suo sistema di potere, rivelatasi un fallimento morale prima che istituzionale. E salvandoci la faccia, prima che si concretizzi anche un fallimento strategico.






