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di Salvatore Ventruto
È nato per garantire una drastica riduzione delle emissioni inquinanti e condurre l’Italia verso un’elettricità più pulita ma finora si è, invece, rivelato una vera e propria corsa a nuovi impianti a gas, scelta che avrà come conseguenza anche quella di generare ulteriori costi in bolletta per i cittadini a partire dal 1 gennaio 2022. Stiamo parlando del Capacity Market, un sistema che assegna un premio/incentivo agli operatori che riescono a garantire adeguate forniture programmabili di energia elettrica, cioè “capacità” pronta a intervenire in caso di necessità e carichi imprevisti.
Capacity Market, come funziona
Il Capacity Market mette sul piatto un quantitativo di risorse che definire appetibili è un eufemismo: 15 miliardi di euro da spendere nei prossimi 15 anni. Un montagna di denaro che Terna S.p.A., il gestore delle reti di trasmissione dell’energia elettrica sul territorio nazionale, assegna agli operatori mediante il sistema delle aste. Il premio che Terna è riuscita a “strappare” per gli operatori è molto alto: 33.000 euro a megawatt per la capacità già esistente e addirittura 75.000 euro a megawatt per la capacità di nuova costruzione. Nessuna remunerazione è così alta se facciamo un confronto con gli altri Paesi europei che hanno adottato il capacity market.
Fonti rinnovabili, perché sono marginali
Un’anomalia alla quale se ne affianca un’altra, ancora più grande: in ciascuna delle due aste indette per il 2022 e 2023 la capacità assegnata agli impianti alimentati da fonti rinnovabili rappresenta solo il 3% del totale. Una percentuale molto inferiore alle aspettative, che svela un “accaparramento” dei fondi da parte dei soliti noti e, quindi, la loro differente destinazione rispetto agli originari obiettivi green del Capacity market.
L’Associazione ReCommon nel dossier “La Super League del fossile” inquadra meglio di chiunque altro tale realtà: le prime dieci aziende che contribuiscono al 57,6% della produzione elettrica nazionale (fra cui Enel, Eni, Edison, EPH) si sono aggiudicate l’88% del valore complessivo delle aste, quantificabile in 2,45 miliardi di euro di contratti. E sono quelle società per le quali le fonti rinnovabili e pulite continuano a essere marginali, in termini di capacità, generazione, investimenti.
Entro il 2025 l’Italia dovrà disfarsi delle centrali a carbone e, col pretesto di dover continuare a garantire l’adeguatezza del nostro sistema elettrico, i grandi operatori invece di investire su impianti a fonti rinnovabili, che in termini di programmabilità stanno già garantendo risultati promettenti, lanciano nuovi progetti di centrali a gas, per una capacità complessiva di 14,5 GW. A fronte, quindi, della tanto decantata transizione ecologica, il Capacity market in Italia rischia di essere applicato sostanzialmente per due finalità: garantire la sopravvivenza del gas come fonte di produzione di energia elettrica e costruire nuovi impianti termoelettrici. Ma tutto ciò è veramente necessario? Da una descrizione degli scenari fatta nel 2019 da Terna e Snam assolutamente no: i consumi di gas metano in Italia sono in diminuzione e in base alle previsioni non raggiungeranno i 30 miliardi di metri cubi nel 2025 e i 26 miliardi di metri cubi nel 2030. Inoltre, sempre nel rapporto dell’associazione ReCommon si evidenzia la netta sovracapacità del sistema elettrico nazionale, con il 2019 che ha registrato 119 GW di potenza produttiva a fronte di un picco massimo di consumo di 58,8 GW. Secondo le più importanti associazioni ambientaliste, fra cui Legambiente, per compensare l’uscita dal carbone basterebbe aumentare le ore medie annue di utilizzo delle centrali termoelettriche esistenti, senza costruirne altre. La realtà, però, è ben diversa: sono già 5 gli impianti termoelettrici, di vecchia e nuova capacità, finanziati dal Capacity market e cioè quelli di Edison a Marghera e Presenzano, Enel a Fusina e La Spezia ed EPH a Tavazzano e lo studio pubblicato nel marzo 2021 da Carbon Tracker individua complessivamente in 19 il numero di impianti a gas in via di realizzazione che sperano di poter accedere agli incentivi del Capacity market. Fra questi Brindisi, Sparanise, Torrevaldaliga, San Filippo del Mela, di proprietà di Enel, A2A, Calenia Energia SpA, Energia Italiana SpA. Arrivati a questo punto è opportuno,quindi, porsi delle domande: perché si continua a puntare su una fonte fossile come il gas pur non essendo competitiva? Quali saranno le conseguenze di tale scelta per l’ambiente e la salute dei cittadini? E le ricadute in termini economici e di costi in bolletta?
Il principale vantaggio per i gestori degli impianti è che per 15 anni il Capacity market garantisce loro ricavi sicuri, non influenzati dalle condizioni del mercato o dal funzionamento o meno dell’impianto. In pratica, la capacità è sempre disponibile e pronta a produrre, ma viene utilizzata solo quando è necessario. Inoltre, il premio non copre solo i costi fissi legati all’obbligo di tenere l’impianto pronto alla produzione, ma anche una parte del capitale che viene impiegato per la sua realizzazione. Non era finora mai accaduto che un incentivo remunerasse anche una parte del capitale.
Impianti a gas, quali conseguenze hanno?
Le ricadute negative sull’ambiente sono invece legate alle modalità di funzionamento di questi impianti che, a fronte della più che sufficiente capacità produttiva del nostro sistema elettrico e del maggior ricorso alle fonti di energia rinnovabile, devono garantire solo una capacità pronta a intervenire in caso di necessità. Per questo non saranno mai utilizzati in modo continuo, ma con carichi molto inferiori alla loro potenza nominale e secondo una combinazione di continue accensioni e spegnimenti decisa da Terna, e questo influirà pesantemente sui loro reali rendimenti e sulla qualità dell’aria, con emissioni di ossido d’azoto, anidride carbonica e monossido di carbonio molto più alte per kilowatt/ora prodotti. Questo scenario si è già verificato con le centrali termoelettriche di Aprilia e Sparanise che erano nate per funzionare in modo continuo e all’intera potenza nominale, ma sono state invece utilizzate con carichi parziali e frequenti avvii e spegnimenti e questo – secondo quanto riportato dai rapporti dell’Eco Management and Audit Scheme (EMAS) – ha comportato per l’impianto di Sparanise l’emissione di 700 tonnellate in più di monossido di carbonio nell’aria.
Le emissioni di monossido di carbonio legate ai continui avviamenti e spegnimenti degli impianti
Le emissioni di monossido di carbonio legate ai continui avviamenti e spegnimenti degli impianti ( in gergo tecnico “regimi transitori”) sono quelle che preoccupano di più perché non vengono regolamentate all’interno delle Autorizzazioni Integrate Ambientali (AIA). Nelle attuali AIA, infatti, si continuano a prescrivere limiti emissivi riferiti a un’ipotesi di utilizzo continuo degli impianti o comunque al di sopra del 50% e questo poteva andare bene fino a dieci anni fa. Adesso, invece, la realtà è ben diversa perché la richiesta di elettricità da fonte termica garantisce un utilizzo delle nostre centrali non superiore al 30%, un valore al di sotto del quale le emissioni non sono più controllabili perché le macchine vengono continuamente spente e riaccese. A fronte di una situazione del genere, non può più essere sufficiente la semplice richiesta di registrazione e trasmissione a ISPRA e nel sistema EMAS delle emissioni legate a ogni singolo evento transitorio, perché non si tratta più ormai di un qualcosa di occasionale, ma di molto frequente. Secondo, infatti, i rapporti dell’Eco Management and Audit Scheme ogni anno il nostro parco termoelettrico a ciclo combinato registra circa 9.000 avviamenti e arresti e questi frequenti regimi transitori hanno come conseguenza il superamento dei limiti di concentrazione massima giornaliera di monossido di carbonio solitamente prescritti nelle Autorizzazioni Integrate Ambientali se si considera un funzionamento continuo e a pieno carico dell’impianto. Occorre, quindi, aggiornare una normativa che, non essendo più al passo con i tempi, non riesce ad assolvere alle finalità per le quali era stata pensata: la tutela dell’ambiente, dell’aria che respiriamo e dei nostri territori. Un Ministero della Transizione che voglia definirsi tale deve assolutamente affrontare queste criticità e fissare dei limiti emissivi per i funzionamenti transitori. Bisogna farlo urgentemente, altrimenti tutto è destinato a ridursi a una presa in giro. Nell’ultimo decennio abbiamo accumulato ritardi notevoli nella gestione del nostro parco termoelettrico, rimandando riflessioni che andavano già fatte da tempo, perché l’utilizzo parziale e a carichi minimi delle nostre centrali è un tema su cui si dibatte ormai da qualche tempo, anche tra gli stessi operatori, ma in molti hanno preferito continuare a far finta di niente. La Società Edison, ad esempio, proprio in merito all’impianto a ciclo combinato di Presenzano, autorizzato nel 2011 e rimasto ad impolverare nei cassetti fino a quando non si è presentata la grande “occasione” del Capacity market, già nel 2013 indirizzava una lettera ai Ministeri dell’Ambiente e dello Sviluppo Economico nella quale evidenziava che, a fronte del decremento della domanda di energia elettrica, della crescita della produzione da fonti rinnovabili e dell’entrata sul mercato di nuovi impianti a gas o a carbone « le ore di funzionamento a pieno carico di un ciclo combinato sono drasticamente ridotte rispetto a quanto previsto nel 2008».
La domanda di energia, è in calo rispetto alla produzione?
Siamo di fronte, quindi, a una serie di contraddizioni: secondo vari report di settore il sistema elettrico nazionale produce molta più energia di quella che consumiamo, al punto che per le principali associazioni ambientaliste l’abbandono delle centrali a carbone potrebbe essere compensato utilizzando maggiormente le centrali termoelettriche già esistenti, senza ampliare la loro capacità o costruirne di nuove. Inoltre, a fronte della costante diminuzione della domanda di energia da fonte termica, si continua a finanziare con soldi pubblici la realizzazione di nuove centrali a gas pur sapendo che il loro utilizzo sarà con carichi molto bassi e frequenti avvii e arresti e che questo avverrà senza che nel nostro ordinamento vi sia una normativa in grado di controllare le emissioni di monossido di carbonio (ma non solo) legate a questo tipo di funzionamento. Si ha, quindi, la netta sensazione di essersi infilati in un cul de sac, con il Capacity market italiano che si sostanzia, finora, in una “transizione” basata sul gas e il rallentamento del processo di decarbonizzazione e passaggio alle energie rinnovabili, con danni gravissimi non solo per l’ambiente ma anche per le tasche degli italiani. Ricordate, infatti, il premio che il Capacity market riconosce agli operatori vincitori delle aste per la copertura dei costi fissi legati alla “messa a disposizione” dell’impianto e di una parte del capitale utilizzato per la sua costruzione?
Dal 1 gennaio 2022, il premio del Capacity market lo ritroveremo in bolletta alla voce “spese per l’energia”
Dal 1 gennaio 2022 lo ritroveremo addebitato in bolletta alla voce “spese per l’energia”. D’altronde, come affermato dal Ministro Cingolani, la transizione ecologica potrebbe essere un bagno di sangue. Sicuramente lo sarà per i cittadini se nulla cambierà nell’immediato futuro. A cominciare dalle aste 2024-2025.