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8 Settembre 2021Caveman, la bellissima storia dello scultore e del nudo nel ventre profondo della grotta
Il racconto di Tommaso Landucci, autore del lungometraggio presente alla Mostra del cinema di Venezia
di Dania Ceragioli
Questa storia racconta un essere apparentemente solitario, che si ritrova a realizzare una scultura di un nudo maschile in marmo, adagiato nell’oscurità del ventre di una montagna sulle Alpi Apuane. Apparentemente folle, questo progetto si ammanta di fascino specialmente per la sua collocazione. Situato a 650 metri di profondità in una grotta che presenta diverse complessità per percorrerla, occorrono circa 30 ore in caduta verticale per raggiungerla, un luogo che sarà accessibile a pochi e esperti temerari. Si parla di vita come della morte, in questo che pare un viaggio onirico, in controtendenza a quello che accade nel mondo, dove l’apparenza e la fretta imperano incontrastate.
Lui è Filippo Dobrilla, eppure non si parla solo dell’artista, ma anche di un’amicizia nata fra due uomini che il destino vuole, a un certo punto, l’uno testimone dell’altro.
L’altro uomo è Tommaso Landucci, un giovane regista toscano, che con il suo lungometraggio documentario Caveman, sarà presente alla 78esima edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, che si terrà nei giorni 1/11 settembre.
Nel suo progetto un racconto intimo spesso silenzioso, senza voci fuori campo, di un uomo che ha fatto dei suoi grandi amori, la speleologia e la scultura, la sfida della vita. Il documentario è volutamente essenziale, intervallato da molte pause, va assaporato senza fretta. Quella fretta che anche il regista non ha avuto nel girarlo. Dopo un primo incontro con l’artista avvenuto nel 2014, ci sono voluti circa quattro anni per terminare le riprese e il montaggio, rallentati anche dall’incedere della malattia che aveva colpito Filippo nel frattempo.
Abbiamo incontrato Tommaso Landucci e in una lunga intervista ci ha raccontato della sua vita, del suo lavoro, dei suoi progetti, dei suoi sogni.
“Provengo da un percorso agonistico, inizialmente volevo fare lo sportivo. Non avendo però grandi doti non c’erano molte possibilità nella specialità che avevo scelto di fare, una combinata fra sci di fondo e tiro con la carabina. Ho conosciuto però la competizione e questo mi ha spinto forse a cercare di fare quel qualcosa in più, di raggiungere in qualche modo gli obiettivi che mi ero prefisso. Questa preparazione sportiva mi ha dato le basi, anche fisiche, per arrivare in fondo a quella grotta e in qualche modo di conquistare la fiducia di Filippo che pareva riluttante a accompagnarmi fin laggiù”.
“L’incontro con Filippo è avvenuto per caso, mentre stavo girando un cortometraggio mi raccontarono di questo personaggio eccentrico, che pare rimanesse chiuso nelle cavità montane addirittura per alcuni giorni. Un amico scultore mi procurò il suo numero di telefono e lo raggiunsi a Monte Giovi dove viveva, rompendo pure una ruota dell’auto, a causa del dissesto della strada, transitabile solo con mezzi 4×4. Feci la mia richiesta, volevo vedere la statua, e lui il mattino dopo mi accompagnò. Tuttavia convincere Filippo a far parte di un documentario fu tutt’altro che facile. Come tutti gli artisti era parecchio controverso. Il suo lato sensibile e fragile si scontrava con la voglia di mostrarsi”.
“La prima emozione che ho provato quando ho visto la statua è stata di paura. Era da una decina di ore che stavo in grotta e la parte più difficile doveva ancora arrivare. Non è stato assolutamente un momento romantico, solo dopo ho apprezzato la bellezza di quell’opera. Avendola toccata, ho provato il senso di potere che può pervadere l’uomo che riesce a plasmare una materia tanto grezza con i soli colpi di mazzuola. Sembrava stare lì da sempre, come i graffiti, era talmente immersa in quel paesaggio e la si vedeva solo se illuminata dalle nostre torce. Peraltro nessuna manutenzione sarà resa necessaria, trovandosi in un ambiente a temperatura fredda e costante. Sulle mappe è stata segnalata come – la stanza di Filippo l’eccentrico scultore”.
“Fino al 1989 pensavano che questa cavità fosse profonda solo 200 metri, ma nel 1991 proprio anche grazie a Filippo si scoprì che poteva raggiungere oltre 1000 metri. In una di queste escursioni si accorse che dal soffitto si era staccato un enorme blocco di marmo e la sua intuizione fu di scolpirlo proprio lì, dove la natura l’aveva voluto”.
“Non sono andato molte volte dentro quella grotta, la prima fu nel 2014 e ci rimasi mezza giornata, sono sceso altre due volte ma a livello fisico e mentale era troppo impegnativo, non ne avevo le energie. Anche girarci è stato difficoltoso e costoso. Immaginate come possa essere portare a quella profondità attrezzature e luci. Avevo iniziato a girare in autonomia con un gruppo di amici, poi mi sono reso conto che avrei dovuto avere una equipe specializzata, arrivata poi quando ho trovato una produzione che ha creduto in quello che stavo proponendo”.
“Inizialmente il mio intento era quello di documentare solo l’opera e l’artista, poi nel gennaio 2019 è cambiato tutto. Filippo si è ammalato e la percezione che la sua malattia si stesse aggravando è divenuta realtà. E’ stato un momento molto complesso, mancava ancora parecchio alla realizzazione completa del documentario, sentivo la pressione della produzione ma non volevo forzare Filippo a girare, come non volevo trovare soluzioni alternative. Ho rischiato davvero di cadere, di sbagliare, è stato fondamentale per me il supporto del maestro americano James Ivory che avevo conosciuto quando ero l’assistente personale del regista Luca Guadagnino. James che avevo incontrato varie volte a New York mi disse – il modo migliore per fare un buon film è aver fiducia nei tuoi protagonisti – e così è stato, ho avuto fiducia e ho pazientato. Dopo due mesi da quei colloqui Filippo mi ha chiamato e sono andato a girare in ospedale. A quel punto nel nostro rapporto c’è stato un altro click”.
“La parte che riguarda la malattia è sicuramente la più intensa, quella che ha dato spessore e profondità all’intera storia, ma allo stesso tempo mi ha causato dei grandi blocchi e sensi di colpa. In un certo senso stavo usando la morte di una persona a mio vantaggio. Mi sono sentito poi totalmente responsabile di quello che stavo facendo. Filippo se ne era andato senza aver potuto vedere il girato, mi aveva passato senza dirmelo il testimone. Forse la bellezza è racchiusa proprio in questo linguaggio del non detto che, non sarebbe stato possibile raccontare in altro modo”.
“Probabilmente anche a causa di quanto accaduto e del covid il mio modo di guardare il mondo è cambiato, sono sempre appassionato e cerco di rimanere positivo, ma sono sicuramente più attento a tutto quanto mi circonda, persone giuste incluse, che cerco di tenermi strette quando le trovo. Fra queste sicuramente Rebecca la mia fidanzata, prima spettatrice e lettrice, che come un faro illumina tutte le mie scelte lavorative”.
“Nel mio futuro vedo la sceneggiatura, mi piace tanto scrivere soggetti e vorrei fare film di finzione agrodolci, con tanti dialoghi e recitazione. Sono attualmente finalista del Premio Solinas con I figli della Scimmia che affronta il tema della paternità ”
“A proposito di paternità, vorrei ricordare che all’interno del documentario sono presenti anche i due figli di Filippo, come vorrei concludere con un ricordo particolare di noi due. Sono rimasto a casa sua a dormire, al mattino doveva tagliare degli alberi e trasportarli con il trattore. Io l’ho aiutato per l’intera giornata a sistemare la legna condividendo con lui una silenziosa atmosfera lavorativa, questo giorno trascorso assieme lo porterò per sempre dentro di me”.
Il documentario Caveman sarà presentato il 7 settembre alle Giornate degli autori sezione Venice Night, durante la mostra del cinema di Venezia.
Abbiamo fatto anche una breve chiacchierata con Martina Engaz, l’ultima compagna di Filippo che ci ha tracciato un profilo intimo e inedito di questo artista.
“Filippo cercava l’amore, amore dal prossimo, amore dalla vita, amore dall’arte. Si creava un mondo tutto suo in cui poter creare e ci riusciva, spostava da solo enormi masse di materiale e da solo anche intellettualmente faceva cose impensabili. Era un uomo complesso e non era facile stargli accanto. Ci eravamo conosciuti attraverso la passione per la speleologia e subito ne era nata una lunga storia d’amore, durata per quindici anni, da cui è nata anche una figlia. Filippo era un padre molto affettuoso ma non era capace di gestire la genitorialità nella quotidianità, gli mancava un po’ la concretezza”.
“Quando ho visto il documentario ho pianto per l’intera durata, ma volevo vederlo in anteprima prima che potesse vederlo mia figlia. Spero che attraverso questo lavoro Filippo possa avere il riconoscimento che merita. Gli ultimi anni dal punto di visto artistico sono stati piuttosto difficoltosi. Non sapeva stare in certe dinamiche, non era tipo da salotti, lui aveva il suo podere da gestire, non aveva tempo per i convenevoli doveva tornare ai suoi ventiquattro ettari di terra. La sua vera opera d’arte perché in essa aveva davvero riposto tutta la sua anima. Adesso sono io a occuparmi di tutto, ci avevo già vissuto per sette anni, ma non è facile anche per la sua ubicazione”.
“I miei ricordi speciali su Filippo riguardano le gite fuori porta che abbiamo fatto assieme, una volta in una grotta ci sorprese una cascata e per tre giorni a causa dell’acqua che aveva invaso tutto siamo rimasti distesi e abbracciati, pure per il freddo, su di un’amaca. Nonostante la situazione disagiata furono giorni davvero belli. Come quella volta che ci recammo a Noto per presenziare a un’inaugurazione, c’erano tanti personaggi famosi, molti prelati, pure Vittorio Sgarbi, ma a un certo punto noi ce ne siamo andati scegliendo di dormire sotto un olivo secolare guardando il cielo stellato. Questa era la vita con Filippo una continua avventura”.
Cenni biografici
Tommaso Landucci nasce a Lucca nel 1989 e risiede adesso a Milano. Nel 2011 ha frequentato il corso di regia del Centro Sperimentale di cinematografia di Roma. Dal 2013 al 2016 ha lavorato come assistente dei registi Claudio Giovannesi e Luca Guadagnino. Nel 2017 l’incontro determinante con il regista James Ivory che diventa suo mentore, oltre che produttore esecutivo e Script editor del suo primo lungometraggio intitolato “I Levitanti”.
Filippo Dobrilla nasce a Firenze nel 1968 e muore nel 2019. Nel 1999 viene scoperto da Vittorio Sgarbi e sarà catapultato nel mondo dell’arte. La sua produzione cerca di riportare nel marmo e nella pietra i dipinti del Cinquecento, anche se nel corso degli anni, la sua arte si sposta sulla realizzazione di opere più contemporanee avvalendosi anche di autoritratti.ù
I crediti delle foto sono di Tommaso Landucci, per gentile concessione ogni diritto a lui riservato