Giornalisti in carcere. Cominciamo con la storia di Azizi

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Giornalisti in carcere. Cominciamo con la storia di Azizi

Rassegna  a cura di Silvia Cegalin

In questi ultimi anni, le notizie riguardanti giornalisti incarcerati sono diventate sempre più comuni, quasi che forse in molti si stanno erroneamente abituando all’idea che i giornalisti e le giornaliste che denunciano particolari situazioni ecrimini, o coloro che operano in territori a rischio e privi di democrazia, quando non vengono uccisi, siano destinati a finire dietro le sbarre.

Questa rassegna ideata da laredazione.net e curata da Silvia Cegalin ha l’obiettivo di portare in superficie storie di giornalisti poco conosciute, dimenticate, ma che evidenziano soprattutto come chi è cerca la verità e la giustizia sia spesso ostacolato e vittima di soprusi. Ed ecco il primo articolo della rassegna.

Non solo carcere, in Iran i giornalisti si condannano a morte

“Sono stata impiccata molte volte dagli interrogatori”. La storia di Pakhshan Azizi.

«Fin dalla tenera infanzia, ha imparato la lotta per la sopravvivenza attraverso le storie e le ninne nanne di una madre che aveva sopportato le difficoltà della vita fino al midollo delle sue ossa». Così inizia la lettera di Pakhshan Azizi, giornalista e attivista kurda, detenuta nel carcere di Evin, a cui a fine Luglio è stata notificata la sentenza di una condanna a morte emessa dalla Sezione 26 del Tribunale rivoluzionario islamico iraniano di Teheran, presieduto dal giudice Iman Afshari. Pakhshan Azizi venne arrestata il 4 Agosto 2023 dalle forze di intelligence iraniane nella città Kharazi di Teheran, e l’11 Dicembre trasferita dal reparto 209 della prigione di Evin, dove era in isolamento, al reparto femminile della stessa prigione. Durante il suo periodo di detenzione è stata sottoposta a incessanti molestie e torture, proprio come testimoniato da lei stessa nella lettera di Luglio, impossibilitata a ricevere le visite e le telefonate dei familiari, nonché dei suoi legali; un fatto, quest’ultimo che ha comportato procedimenti giudiziari condotti in processi farsa e non equi, non certo una novità per il regime teocratico dell’Iran. 

La “colpa” di Azizi

Azizi, giornalista e attivista politica e umanitaria kurda, è stata condannata con l’accusa di baghi, “ribellione”, in quanto secondo i giudici e l’intelligence iraniani appartiene a gruppi che hanno intrapreso una rivolta armata contro il governo islamico, è stata inoltre condannata a quattro anni di reclusione con l’accusa di essere membro del Partito della Vita Libera del Kurdistan (PJAK). Secondo l’articolo 287 del Codice penale islamico infatti qualsiasi gruppo impegnato nella resistenza armata contro la Repubblica islamica è considerato ribelle e comporta l’imposizione della pena di morte nei confronti dei suoi membri. Ricordiamo che Pakhshan Azizi fu già arrestata il 16 novembre 2009 mentre era in corso una protesta degli studenti kurdi a Teheran contro le esecuzioni dei prigionieri in Kurdistan. Successivamente, il 19 marzo 2010, fu rilasciata dietro pagamento di una cauzione di 100 milioni di Toman. Nonostante questo Azizi continuò ad essere perseguitata e minacciata dal regime della Repubblica islamica, e per questo fu costretta a fuggire dall’Iran.

Importante sottolineare che Pakhshan Azizi, riporta Shargh Daily, tramite Amir Raesian, uno degli avvocati che lavorano sul caso, «non solo non ha partecipato ad alcuna operazione armata, ma è anche stata in Iraq e Siria negli ultimi sette anni, dove ha aiutato i rifugiati e le persone colpite dalla violenza come assistente sociale dopo le atrocità commesse dall’ISIS dal 2015», essendo sempre stata interessata allo studio della situazione delle donne nel Bashur (Kurdistan iracheno) e nel Rojava (Kurdistan siriano).

Le rivolte in carcere dopo la condanna a morte

Contro la sentenza di condanna a morte di Pakhshan Azizi sessanta prigioniere politiche del reparto femminile del carcere di Evin, mercoledì 24 Luglio, hanno protestato nel cortile della prigione, gridando “Morte al dittatore”,   “Giuriamo sul sangue dei nostri compagni che resisteremo fino alla fine”, concludendo con “Ci batteremo fino alla fine per l’abolizione della pena di morte; abbasso il governo delle esecuzioni”. Ad associarsi a questa protesta anche i detenuti di Ghezel Hesar a Karaj, che hanno aderito sottolineando che la resistenza e la protesta contro la repressione e le esecuzioni continueranno senza sosta. 

L’appello delle Associazioni dei giornalisti e delle giornaliste

Women Press Freedom in un comunicato del 23 Luglio, dichiarano:

«Condanniamo fermamente il maltrattamento dei giornalisti che scontano condanne ingiuste e chiediamo che ad Azizi sia consentito di comunicare con la sua famiglia e che sia pienamente scagionata. Le autorità iraniane devono porre fine alle violazioni della libertà di stampa e dei diritti umani. Il giornalismo indipendente non è un crimine ma un servizio pubblico fondamentale e un pilastro della democrazia. Chiediamo che tutti i giornalisti imprigionati in Iran siano immediatamente rilasciati. Inoltre, esortiamo la comunità internazionale a dare priorità alle discussioni sui casi dei giornalisti quando interagiscono con l’Iran. 

Women Press Freedom è unita nella solidarietà con Pakhshan Azizi. Denunciamo con veemenza le accuse infondate, l’ingiusta incarcerazione e i maltrattamenti che ha subito. Chiediamo il suo immediato rilascio e la completa assoluzione. Il governo iraniano deve porre fine alle violazioni della libertà di stampa e dei diritti umani. Il giornalismo indipendente è fondamentale per la democrazia e non deve essere ingiustamente preso di mira. Esortiamo la comunità internazionale a dare priorità ai casi dei giornalisti nei loro impegni con l’Iran. Non bisogna permettere che queste violazioni persistano». Già in un report pubblicato nel Gennaio 2024, Women Press Freedom denunciava casi preoccupanti di violazioni della libertà di stampa in Iran, in aumento soprattutto dopo le proteste a livello nazionale seguite all’uccisione di Jina Mahsa Amini. Nel documento infatti si segnalava che in Iran, all’epoca, erano detenute 43 giornaliste, consolidando il suo status di principale carceriere di professionisti dei media.

Azizi è l’ennesima vittima innocente di un regime che non ferma la sua mattanza, e come scrive lei stessa nella lettera: 

«Questo è il senso della nostra vita, il dolore che non uccide, 

rende l’essere umano più forte. 

Abbiamo sentito, vissuto, la vita al margine dell’esistenza 

e della non esistenza con tutto il nostro essere»