Peppino Impastato, Casa Felicia resta al Comune di Cinisi
14 Luglio 2022Legge sulla cittadinanza, tra ius temperato e ius scholae
16 Luglio 2022I libri umani, la biblioteca vivente in Italia
Intervista a Enrico Gentina, sulla prima esperienza italiana di Human Library
di Dania Ceragioli
La biblioteca vivente prende forma a Copenhagen in Danimarca. Viene ideata da un gruppo di ragazzi, in risposta all’aggressione a sfondo razziale, che vede coinvolto un loro amico nel 1993. Convinti che solo attraverso la tolleranza e la comprensione possano essere superate alcune barriere fondano l’associazione “Stop the Violence”, raggiungendo rapidamente circa 30.000 adesioni. All’interno di questo progetto nel 2000 viene introdotto e sperimentato il metodo della Human Library, che mette le persone di fronte ai loro pregiudizi, offrendo uno spazio protetto in cui confrontarsi liberamente. Nella biblioteca vivente non sono i libri a raccontare una storia ma le persone che la vivono direttamente, infatti i libri umani si lasciano sfogliare, raccontando pagine intime e private della loro vita. La biblioteca vivente si presenta con la struttura di una vera biblioteca, ci sono i librai e un catalogo di titoli da cui poter scegliere. Nella maggioranza dei casi i libri viventi appartengono a minoranze soggette a stereotipi e pregiudizi e si rendono disponibili proprio per ridurre le distanze, far conoscere le proprie esperienze. I titoli dei libri sono volutamente molto diretti e espliciti, in modo da suscitare delle forti reazioni emotive nel lettore. Attraverso l’incontro si rende unica la persona che si ha di fronte, vengono abbattute le diversità e chi si racconta viene considerato solo attraverso la propria storia. La conversazione o lettura di un libro vivente solitamente non supera mezz’ora e rimane un evento molto limitato nel tempo. Chi ha vissuto questa esperienza la descrive in maniera entusiasmante e di arricchimento significativo del proprio percorso di vita.
Come siete riusciti a importare questo progetto? È stato complicato?
Non è stato complicato. Ciò che abbiamo fatto a Torino con Marco (Pollarolo) rispetto al concept originale danese, è stato spostare l’attenzione sulla cultura rispetto al pregiudizio. In base al territorio su cui ci muovevamo, incentrarci su problematiche specifiche, ritenevamo fosse un approccio troppo diretto rischiavamo di non avere riscontri. Confrontandoci con l’amministrazione comunale abbiamo deciso di coinvolgere anche dei migranti, ma non di incentrare gli eventi solo sulla migrazione, ma essenzialmente su un pezzo della loro vita. Abbiamo ideato questo progetto sugli aspetti culturali, trattando argomenti quali “Storie d’amore”, “Grandi maestri”, “Riti di passaggio”, etc. L’idea è sorta quando assieme a Marco ci siamo recati in Portogallo per esplorare il format. Ci ha colpiti l’impatto della storia che veniva raccontata dal libro vivente trovandosi di fronte a un’altra persona sola, in un rapporto di 1 a 1 con l’altro soggetto. In circa 20 minuti un frammento della sua vita veniva letto a un interlocutore creando un legame unico speciale. Siamo stati i primi a importare questo modello e lo abbiamo perseguito per anni, anche se in contemporanea altre associazioni in città usavano la libreria umana per raccontare situazioni legate al disagio. Quello che abbiamo fatto noi attraverso questi eventi prevedeva la sola narrazione, non volevamo divenisse un saggio, ma soprattutto un incontro fra persone.
Rispetto alla fase iniziale ci sono stati cambiamenti nel tempo?
Rispetto all’inizio siamo divenuti più bravi a organizzare gli spazi, capendo meglio come funzionavano gli ambienti. Il pubblico che arrivava si trovava di fronte un grande foglio su cui era indicata una breve descrizione delle storie, doveva quindi essere indirizzato. È in questa fase che abbiamo lavorato, sulla modalità di accoglienza, tengo a precisare che le letture erano gratuite. Io e Marco eravamo già amici, ci conosciamo da tanti anni e abbiamo unito le nostre competenze. Io mi sono sempre occupato di organizzazione di eventi, mentre lui invece è un antropologo con specifiche competenze nel sociale, è inoltre un operatore del Teatro dell’Oppresso. La sperimentazione ci ha permesso di portare l’HL in circoli letterari, in biblioteche, ma anche nei condomini, negli appartamenti, per dare un ulteriore taglio narrativo. Ci siamo affidati molto ai librai, le persone che stanno con i libri umani, abbiamo fatto un percorso su come costruire la storia. Dovevamo capire come strutturarla dandole un inizio, una fine, inserire dettagli, pur rimanendo fedele ai fatti era necessario un lavoro di costruzione. Ogni sessione era diversa dall’altra, ho visto lettori che rimanevano in silenzio ascoltando fino alla fine, mentre altri che interrompevano facendo domande, molto dipendeva dalla relazione che si instaurava fra le parti. In ogni caso le storie non venivano mai lette ma soltanto raccontate.
Quali sono i libri umani maggiormente richiesti?
Non ci sono stati libri andati per la maggiore, sono state tutte esperienze uniche, c’è sempre stato un grande accesso di pubblico, anche se la rassegna “Riti di passaggio” è stata fra gli eventi più apprezzati. Erano tutte storie in cui si raccontava un momento della vita in cui era avvenuto un passaggio evolutivo. Gli argomenti venivano scelti in base alle nostre intuizioni e alla nostra curiosità. Il progetto è andato avanti fino a poco prima del lockdown e complessivamente è durato quattro anni, in futuro c’è la speranza di riprenderlo.
C’è una fase di reclutamento? Come vengono selezionati i libri?
Non abbiamo mai fatto dei reclutamenti. Tutto avveniva fluidamente attraverso il passaparola. Questo progetto era gestito dall’amministrazione comunale e attraverso una rete di associazioni che ci aiutavano a individuare persone con storie interessanti da raccontare, o a metterci in contatto con potenziali librai. È capitato pure che fossero i libri umani a proporsi a noi.
Quali sono i lettori? Ci sono fasce d’età maggiormente coinvolte?
In generale il solito pubblico torinese che si recava agli eventi culturali, dai ragazzini alle famiglie, incuriositi a prescindere dall’età.
Ci saprebbe dire quante altre realtà di questo genere si trovano in Italia?
Sicuramente adesso ve ne sono molte. Sarebbe una pratica da diffondere, ma ci vogliono strutture amministrative interessate a questo tipo di situazioni, in grado di supportarle e finanziarle. D’altronde non può diventare un evento di massa, non è possibile far pagare biglietti, come non è possibile ripetere l’esperienza all’infinito. I lettori possono raccontare la loro storia per non perdere quel minimo di improvvisazione, massimo cinque volte, oltre può diventare stancante.
Quali sono le storie che ancora non sono state raccontate e vi piacerebbe fossero “lette”?
Abbiamo fatto in modo che quelle che ci interessavano maggiormente venissero raccontate. Ci sono comunque storie che mi sono rimaste dentro e che a distanza di anni ricordo ancora con piacere. Due in particolare, la storia di un ragazzo che proveniva dal Congo, un luogo terribile, intriso di guerre e carestie. In “Grandi maestri” raccontava con dolcezza del maestro che gli aveva insegnato a suonare la chitarra. Alla fine del suo racconto tirava fuori lo strumento regalando un pezzo a chi si trovava davanti, facendolo con una grazia e una delicatezza straordinaria. Inoltre quello di una signora italiana in “Riti di passaggio”. Erano gli anni sessanta, frequentava le scuole medie e con le sue amiche si trovò a infrangere un tabù, entrando di nascosto all’interno di un bar frequentato unicamente da uomini. Ancora oggi raccontava con enfasi come questo episodio, all’epoca, l’avesse fatta sentire grande.