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Il Governo decide di iscrivere correttamente i 120 miliardi di euro di crediti d’imposta nei deficit fra il 2020 e il 2022.
Nelle stesse ore in cui il Presidente Mattarella visitava Casal di Principe per onorare la memoria di Don Diana, vittima della camorra, il capo politico dei 5 stelle marciava per le vie di Roma insieme agli “esodati del Superbonus”, al coro di ‹‹truffati dallo Stato!››.
C’è da chiedersi, piuttosto, se il vero errore non fosse da parte chi, tre anni fa, avesse promesso agli italiani che avrebbero potuto ristrutturarsi le case “gratis”.
Ma non ce lo chiediamo.
Si sta chiudendo il sipario sul più ‹‹incredibile errore collettivo di politica economica degli ultimi decenni›› , come lo ha definito Federico Fubini sul Corriere della Sera.
L’effetto sbornia del Superbonus, sin dai primi mesi, aveva generato una irresponsabilità collettiva che, come sottolineò più volte l’ex Presidente del Consiglio Mario Draghi, aveva fatto lievitare il costo di ogni singolo intervento, e materiale, sino a nove volte i costi di quelli di altri Paesi europei.
Una patrimoniale alla rovescia
Il fatto, poi, che le autorizzazioni fossero concentrate sugli edifici più costosi, faceva comprendere come i principali beneficiari di questa misura fossero le classi più abbienti. E pare calzare a pennello la definizione che il senatore Mario Monti ne ha recentemente dato ovvero quella di una ‹‹patrimoniale alla rovescia››.
Un tributo, cioè, a carico dello Stato, in grado di aumentare il valore dei beni di coloro che già ne posseggono di più.
Il debito pubblico aumenta per l’iscrizione dei miliardi del superbonus
Al centro delle polemiche c’è il meccanismo dei crediti d’imposta utilizzabili per pagare fatture e cedibili a terzi in cambio di contante, in sostanza una moneta parallela, finanziata dal debito pubblico futuro.
Di fronte a questa prassi, che in Italia si stava perpetrando da quasi 3 anni, Eurostat ha chiesto al Governo di decidere se iscrivere i 120 miliardi di euro di crediti d’imposta nei deficit dei prossimi anni o se farlo negli anni durante i quali erano stati generati, ovvero fra il 2020 e il 2022.
Di certo, non potevano essere tenuti nascosti o sperare che venissero dimenticati, come qualcuno sperava forse.
La scelta del Governo è stata coerente: ovvero iscrivere i debiti negli anni passati, anche perché se avesse deciso di metterli nei conti degli anni a venire, per l’intera legislatura saremmo finiti sotto procedura per deficit eccessivo.
Questa scelta comunque avrà una conseguenza, comportando un ritocco decisamente al rialzo dei disavanzi degli anni 20-23, facendoci ritrovare con soglie di deficit che, secondo gli analisti, rasenteranno il 10%.
È a questo punto che emerge il problema dei crediti cosiddetti incagliati, quelli generati ormai non più cedibili.
Dalla relazione finale della Commissione Parlamentare d’inchiesta sulle banche di ottobre 2022, spiega Fubini, che le banche si erano impegnate ad accettare crediti d’imposta immobiliari per 77 miliardi di euro.
E poiché gli stessi istituti hanno stimato di dover versare nei prossimi cinque anni, imposte intorno agli 80 miliardi, una banale equazione aiuta a comprendere perché non hanno più interesse ad assorbire nuovi crediti d’imposta.
Sottratti dai 120 che già avevamo chiamato in causa, restano così almeno 40 miliardi di euro di crediti incagliati, di cui solo 15 sono in dote alle imprese edili, come stimato dall’Associazione Nazionale dei Costruttori Edili (Ance).
Che cosa succede ai crediti incagliati
I crediti incagliati avranno un effetto anche sul debito pubblico dei prossimi anni, sul quale incideranno quei quasi venti miliardi in meno di tasse che banche e imprese pagheranno attraverso i crediti d’imposta.
E così, alla fine della favola, ci ritroveremo nuovamente a fare i conti con le promesse disattese di chi si era impegnato a far scendere il debito pubblico, lasciandoci navigare sempre nelle nostre consuete, torbide acque.