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L’avrebbero chiamata Jane Roe, per tutelarne la privacy durante i processi, ma il suo vero nome era Norma McCorvey. Incinta del terzo figlio, nel 1970 Norma si presentò a un tribunale di Dallas per chiedere l’aborto. Per farlo, dovette mentire: dichiarò di essere stata stuprata.
Prima degli anni ‘70, negli USA non esisteva una normativa generale sull’aborto, per cui era facoltà dei singoli Stati deciderne le condizioni. In Texas, per esempio, era consentito solo in casi eccezionali, come appunto lo stupro – ma in oltre 30 Stati della federazione non era nemmeno legale.
Ovviamente Norma non riuscì a provare la sua dichiarazione, quindi fu costretta a partorire. Invece la sua vicenda giuridica, sotto lo pseudonimo legale di Jane Roe, ebbe tutt’altra sorte. Un gruppo di avvocati portò avanti il suo caso fino a raggiungere la Corte Suprema, il più alto grado giuridico statunitense. Nel ‘73 sette giudici sui nove della Corte si pronunciarono a favore del diritto di aborto. Fu una sentenza storica: a una donna americana venne riconosciuto il diritto all’aborto, a prescindere dalle motivazioni.
Da allora, nei tribunali americani si ricorre alla sentenza Roe vs. Wade per risolvere le controversie legali sull’interruzione della gravidanza – Henry Wade, procuratore distrettuale di Dallas, rappresentò lo Stato durante i processi di Jane Roe.
Soprattutto negli Stati meno concessivi a riguardo, come Texas e Oklahoma, la sentenza del ‘73 è l’unico strumento legale che tutela il diritto di accesso all’aborto. O meglio, lo era.
Cancellare Roe v. Wade
Il quotidiano americano Politico ha pubblicato la bozza di un documento della Corte Suprema firmata da Samuel Alito, uno dei nove giudici costituenti. Non era mai successo che un documento della Corte venisse divulgato prima della sua effettiva approvazione, ma lo scandalo è stato subito coperto dal suo contenuto, ben più eclatante. Nel documento, infatti, si chiede la cancellazione della sentenza Roe v. Wade.
La proposta di Alito e degli altri quattro giudici firmatari (tutti repubblicani, tre dei quali nominati da Trump) nasce da un caso specifico. L’anno scorso il governo del Mississipi ha richiesto alla Corte di convalidare una sua propria legge per vietare l’interruzione di gravidanza dopo le 15 settimane. Ciò non sarebbe in contrasto soltanto con la sentenza Roe, ma anche con la Planned Parenthood v. Casey, un caso analogo del ‘92 dove il limite fu portato a 24 settimane.
Qualora il documento venisse approvato dalla maggioranza della Corte, si tornerebbe alla situazione giuridica anteriore al ‘73: cancellando la Roe, l’aborto non sarebbe più regolato da una normativa federale, bensì dai governi dei singoli Stati – alcuni dei quali dichiaratamente pro-life e anti-abortisti.
Una questione di legge
«Il caso di Roe era sbagliato fin dall’inizio – si legge nella bozza – […] è tempo di tornare alla Costituzione e riportare la questione dell’aborto ai rappresentanti degli Stati».
Alito ha ragione quando sostiene che il diritto all’aborto, negli Stati Uniti, non è normato dalla Costituzione. Il caso Roe non ha valore di legge, ma costituisce soltanto un precedente giuridico: il diritto all’aborto non è mai stato regolato da una legge federale.
Questo è un problema che affonda nella struttura della giurisprudenza americana, la common law. A differenza del sistema italiano (civil law), dove il giudice si rifà principalmente alla legge e poi, secondariamente, a casi pregressi, nei tribunali statunitensi questioni come l’aborto vengono risolte consultando sentenze pronunciate in casi analoghi. In altri termini, mentre in Italia l’aborto è materia di legge (la 194 del 1978, confermata dal referendum dell’81), negli Stati Uniti ci si rifà solo a precedenti, come Roe v. Wade. Certo, le costituzioni dei singoli States possono adottare leggi particolari, e spesso anche in contrasto con sentenze storiche come la Roe, ma resta il fatto che nella costituzione federale non sia mai esistita una legge esplicita in materia di aborto.
Perché il diritto vuole una legge
Al di là di pregi e difetti dei due sistemi, il diritto all’aborto in America manca di una solida garanzia giuridica. L’unica base legale, la sentenza Roe v. Wade, sarà cancellata con ogni probabilità. Possiamo esserne certi: per revocarla, basta l’approvazione della maggioranza della Corte Suprema, dove ben cinque dei nove giudici sono Repubblicani e conservatori dichiarati.
D’altra parte i Democratici se ne sono accorti solo ora, ma potrebbe essere troppo tardi per seguire il consiglio di Biden di proporre una legge sull’aborto. È tardi, perché l’iter legislativo per varare una nuova legge sarebbe più lungo che quello per cancellare la sentenza. Ma è anche molo difficile, visto che il Parlamento è già spaccato sul tema – un divario che potrebbe accentuarsi anche con le elezioni di metà mandato, a novembre, quando i Repubblicani (tradizionalmente pro-life) probabilmente otterranno più deputati.
In ogni caso, la cancellazione della sentenza non sospende in toto il diritto all’aborto, perché ora saranno i singoli Stati a regolarsi in materia. Ma la mancanza di una legge costituzionale sovra-statale lascia comunque un enorme vuoto giuridico: solo in 8 Stati come la California o New York le donne conserveranno il proprio diritto di scelta, senza restrizioni, ma non sarà così per gli altri 42 – in alcuni di questi, nemmeno in caso di stupro o incesto.
Più che di disuguaglianze, si ha la sensazione di un errore giuridico: il diritto dovrebbe (doveva) essere normato da leggi ben definite e irrevocabili, non sentenze rivedibili. Con il sistema attuale, invece, basterà un’udienza per riportare l’America al ‘73.