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22 Luglio 2021Il G8 di Genova vent’anni dopo
Sono passati vent’anni dalle terribili violenze che si consumarono a Genova in occasione del G8.
di Coraline Gangai
Nella mente di coloro che hanno vissuto l’orrore di quei giorni sono ancora vive le immagini del sangue sui pavimenti e sulle pareti della scuola, dei sacchi a pelo squarciati, delle porte sfondate a calci dai poliziotti, dei vetri distrutti e delle grida che riecheggiano tra quelle mura dove si è consumata una violenza che è stata definita dagli stessi poliziotti che l’hanno commessa una “macelleria messicana”. Tra di loro c’erano non solo giovani ragazze e ragazzi provenienti da tutto il mondo, ma anche avvocati, attivisti, ONG, giornalisti della stampa nazionale e internazionale che dal media center raccontavano quanto stesse accadendo nella città, manifestanti pacifici e tanti altri, che a Genova erano arrivati il 16 luglio per manifestare il proprio dissenso nei confronti di un mondo governato dalle decisioni dei ‘Grandi 8’ e in contrasto con i valori di una società etica e civile.
Le 300.000 persone che in quella calda settimana di luglio sono arrivate a Genova per cambiare il mondo un po’ ci sono riuscite, anche se per alcuni quei giorni hanno cambiato le loro vite per sempre.
I fatti accaduti a Genova
Dal 14 al 22 luglio del 2001 oltre 300.000 persone si incontrarono a Genova su iniziativa del ‘Genoa Social Forum’, una rete internazionale composta da 1187 organizzazioni che sottoscrisse il cosiddetto patto di lavoro, che partiva da una condivisa analisi e denuncia delle ingiustizie prodotte dalla globalizzazione in atto, per poi concentrarsi su proposte economiche, sociali e politiche alternative a quelle promosse dai ‘Grandi 8’, riunitisi nel vertice che si sarebbe svolto proprio in quei giorni nella città. L’obiettivo di questo Movimento era contribuire a realizzare un mondo migliore e alternativo a quello proposto dalle compagini politiche.
Sono giornate di dibattiti e scambi di opinioni su vari temi (ambiente, pace, sviluppo sostenibile, economia, etica) nei public forum allestiti e organizzati dal GSF, ma anche di manifestazioni e marce pacifiche. Ben presto però il clima di festa e unione creatosi nei primi giorni si trasforma in un vortice di violenze. L’apice viene raggiunto nelle giornate del 19, 20 e 21 luglio quando si verificano due eventi che cambieranno per sempre il corso della storia: l’uccisione di un giovane ventitreenne genovese, Carlo Giuliani, per mano di un carabiniere, Mario Placanica, durante il corteo di Piazza Alimonda e la notte di violenze alla Diaz, dove quasi un centinaio di ragazzi furono picchiati dalla furia della polizia che fece irruzione nella scuola alla ricerca dei Black Bloc che nei giorni precedenti avevano devastato la città di Genova.
Il bilancio di quelle due giornate è spaventoso: nella giornata del 20 luglio si contano tra i 1000 e i 1200 feriti, mentre il 21 luglio 93 furono le persone picchiate e arrestate, 63 i feriti e 28 i ricoverati in ospedale, di cui 3 in codice rosso.
Durante l’assalto della polizia nella Scuola Diaz molti dei giovani picchiati vengono arrestati con l’accusa di “associazione a delinquere finalizzata alla devastazione e al saccheggio” e condotti in ‘carceri temporanee’ adibite a siti penitenziari: Forte San Giuliano, dove venivano condotti gli arrestati dai Carabinieri, e la caserma di Bolzaneto, per gli arrestati dalla Polizia di Stato.
In queste due strutture le violenze continuano, così come testimoniano le dichiarazioni rilasciate dai ragazzi arrestati, che riferiscono di aver subito umiliazioni, di essere stati picchiati più volte e lasciati in piedi per ore senza acqua né cibo. Dettagli crudi, da cui emerge una vera e propria violazione dei diritti umani e della persona che non verrà mai punita a causa dell’assenza, in quegli anni, del reato di tortura (introdotto dalla legge n. 110 del 2017).
Dopo undici anni, nel 2012, arriva la sentenza definitiva. L’esito non è però quello sperato dalle vittime: per le violenze commesse alla Scuola Diaz vengono disposte soltanto 25 condanne a carico di alti funzionari, condannati per falso ideologico aggravato, ma non per le torture commesse. Alcuni di loro riusciranno a fare carriera e a restare impuniti.
Le testimonianze: Intervista a Lorenzo Pancioli Guadagnucci, giornalista sopravvissuto alle violenze commesse dentro la Diaz
Per chi ha vissuto sulla propria pelle le cariche della polizia e le umiliazioni dimenticare non è facile, se non impossibile.
Negli anni il numero di testimonianze è cresciuto e grazie a chi ha trovato il coraggio di raccontare quei giorni terribili è stato possibile ricostruire quanto accaduto a Genova in quei sette giorni. Tra le organizzazioni che hanno svolto questo importante e delicato lavoro c’è Peacelink, l’associazione di volontariato nata nel 1991 su rete telematica, che ha raccolto in un archivio tutte le segnalazioni e i racconti inviati via mail da chi quei giorni si trovava in città.
Le testimonianze, pubblicate in modo anonimo, sono 94: c’è quella di E.G, che racconta l’assalto alle vetrine dei negozi del centro per mano dei Black Bloc, avvenuto venerdì 20 luglio, di fronte ad uno schieramento di forze di polizia immobile, quella di un noto giornalista sportivo piemontese che racconta l’incubo vissuto dal figlio, arrestato e pestato a sangue dai Carabinieri per aver cercato di filmare i cortei di Genova, e tanti altri. Da ognuno di questi racconti traspare la violenza e la paura di quei momenti e la certezza che rimarranno impressi nella memoria per sempre.
Tra i testimoni di quei giorni c’è anche Lorenzo Pancioli Guadagnucci, giornalista del Quotidiano Nazionale e autore del libro “Noi della Diaz”, che la notte del 21 luglio si trovava dentro la scuola Pertini (ex Diaz) e riuscì a sopravvivere alle torture della polizia.
A Genova Lorenzo decide di recarsi come libero cittadino, perché incuriosito da quei movimenti di cui condivideva, e condivide tutt’ora, i valori come spiega lui stesso: “Negli anni precedenti al 2001 avevo maturato un certo interesse per il Movimento della Giustizia Globale, per la sua genesi, le sue ragioni, i suoi temi. Lo avevo seguito da lontano, informandomi con vari mezzi compresa la rete internet che cominciava a diffondersi.
Nel gennaio del 2001, con il crescere di questo interesse che mi portò a incrociare l’esperienza del commercio equo e solidale, partecipai al Forum Sociale di Porto Alegre, la prima vera occasione di unirsi e ragionare insieme con gente proveniente da tutte le parti del mondo su quei temi. Fu allora che Genova fu individuata come primo e più importante momento di riunione e azione in Europa per l’anno 2001. Era quindi naturale esserci.
Queste cose le facevo nei miei giorni liberi. Anche a Genova mi recai l’unico giorno della settimana in cui non lavoravo, sabato 21 luglio. Presi il treno molto presto e arrivai in mattinata e ricordo questa enorme massa di persone che scendeva dai treni.
Mi diressi prima al centro stampa e poi raggiunsi il corteo che si osservava dall’alto, dalle balconate che davano su Corso Italia. Ricordo la quantità di persone, i colori, il fatto che fosse un corteo intergenerazionale perché c’erano persone di tutte le età e bandiere di tutti i colori, gente di tutte le nazionalità, e quindi l’estrema eterogeneità di quel corteo che corrispondeva alla natura del Movimento, il primo globale della storia.
Poi ricordo la carica della polizia sui manifestanti, piuttosto scioccante e violenta. Io mi trovavo nel punto in cui il corteo fu spezzato e ricordo che al lancio dei lacrimogeni iniziai a scappare, salii su per una scalinata e cominciai a vagare per la città, che non conoscevo. Io e le altre persone che avevano lasciato il corteo cercavamo di stare il più possibile alla larga dalla polizia perché avevamo paura di essere aggrediti. Questo era quello che succedeva in quei giorni per le strade di Genova, dove la polizia poteva aggredire indisturbata la gente”.
La notte dell’assalto alla Diaz Lorenzo era presente. Dopo aver parlato con alcuni ragazzi del centro stampa decise di fermarsi a dormire nella scuola e ripartire l’indomani mattina. Aveva con sé il sacco a pelo e tutto il necessario per la notte. Si era addormentato da poco quando improvvisamente fu svegliato dal frastuono e dalle urla. Mai avrebbe potuto immaginare ciò che stava accadendo e che sarebbe accaduto di lì a pochi minuti: “La notte dell’irruzione della polizia nella Scuola Diaz io mi trovavo all’interno. Avevo deciso di fermarmi a dormire lì con il sacco a pelo che mi ero portato dietro su consiglio di alcuni ragazzi che avevo incontrato al centro stampa, situato di fronte all’edificio scolastico. Allo scoccare della mezzanotte la polizia ha fatto irruzione nell’edificio. Si è trattato di una spedizione punitiva vera e propria, formalmente una perquisizione ma in realtà un pestaggio immediato. Sono stato lì dentro quella ‘tonnara’ (ndr: così come la definisce) per ben due ore. Tre agenti hanno iniziato a picchiarmi in modo violento, dopodiché mi hanno caricato su una barella e portato all’Ospedale Galliera, dove ho passato tutta la notte tra cuciture, lastre ed ecografie. Poi mi hanno trasferito in una stanza d’ospedale, piantonato da due agenti che mi controllavano e che mi dissero che ero in stato di arresto. Una sospensione di legalità perché io non sapevo le ragioni del mio arresto né avevano saputo dirmele i due agenti. Le ho apprese il giorno dopo leggendo i quotidiani. Tra l’altro sul Corriere della Sera c’era un articolo che mi riguardava perché nella notte, avendo il cellulare con me, avevo parlato con alcuni colleghi e si era subito diffuso il mio nome come uno dei 93, credo l’unico di cui si sapesse subito il nome, e lì ci hanno spiegato le ragioni dell’arresto e le accuse che pendevano su di noi, associazione a delinquere finalizzata al saccheggio, resistenza a pubblico ufficiale, ecc…Ricordo bene tutto quello che è successo. È stato un trauma, una vicenda che mi ha cambiato parecchio e che si è risolta nei due giorni seguenti, dopo l’interrogatorio dei PM. Lunedì, verso la mezzanotte, sono stato rilasciato.
Il G8 ha lasciato in me un segno profondo. Ho scoperto un lato del mio Paese che non immaginavo. Io tutt’ora sono sconcertato al pensiero di con quanta leggerezza e facilità i dipendenti dello Stato abbiano compiuto quell’ irruzione, rischiando di uccidere qualcuno. Si servivano di uno strumento, il manganello tonfa, che dalle istruzioni che avevano ricevuto era indicato come potenzialmente letale. Usato per la prima volta a Genova, è composto da una lega molto resistente, che non si rompe, ed è molto pericoloso, infatti 3 dei 93 sono finiti in ospedale, in codice rosso, e hanno rischiato la vita. L’ho visto usare in maniera del tutto incontrollata, selvaggia, per colpire alla cieca. Io stesso sono stato colpito alla cieca: ho preso dei colpi al braccio, me lo hanno scarnificato, e mi hanno rotto lo scafoide. Questo è lo sconcerto che rimane a distanza di vent’anni. Ciò che più è cambiato in me è stata la mia condizione di cittadino, oltre che di persona, da un lato perché da allora ho cominciato ad essere attivista, affiancando questo ruolo al mio lavoro di giornalista. Non mi sono lasciato alle spalle questa vicenda e ho continuato a parlarne scrivendo libri, fondando il Comitato Verità e Giustizia per Genova e impegnandomi sul fronte dei diritti umani. Quello che è accaduto mi ha fatto capire quanto siano fragili l’essere umano di fronte alla violenza e le istituzioni democratiche e quanto non sia impossibile che le garanzie costituzionali e i diritti fondamentali, che pensavo fossero garantiti nel nostro Paese, in realtà possano essere accantonati e messi fuorigioco. È successo a Genova ma può succedere di nuovo”.
In quei giorni a Genova erano arrivati anche giornalisti da tutto il mondo che nel media center messo a disposizione dal Genoa Social Forum scrivevano e inviavano ai propri paesi articoli e notizie su quanto stava accadendo. Non tutti i media italiani, però, fecero una narrazione aderente alla realtà: “I grandi media hanno affrontato quel movimento con un approccio, almeno inizialmente, parziale. Il movimento è stato raccontato poco per la sua genesi, le sue ragioni e la sua natura. Se ripercorriamo i mesi precedenti al G8 attraverso la stampa ci accorgiamo che l’enfasi era posta su un’aspettativa di scontri, problemi di ordine pubblico e sul fatto che quel movimento portasse con sé un’ondata di violenza e potenziale disordine. Ricordo le iperboli poco credibili, come le ipotesi dell’utilizzo di agenti della polizia come scudi umani o il lancio di palloncini contenenti sangue infetto verso gli agenti…cose fantasiose che però furono riportate dai giornali. Questo clima di tensione è stato creato per ragioni politiche, nel senso che le forze politiche e i governi affrontarono questo movimento con diffidenza, temendo probabilmente il consenso che stava raccogliendo, la sua natura di aggregazione di esperienze, storie e culture diverse e le sue ragioni, oggi molto pertinenti ai problemi del pianeta. In quella fase i media sono stati schiacciati dai poteri dominanti.
Nelle giornate di Genova,di fronte all’enormità degli abusi e delle menzogne nell’operato delle forze di polizia, che è stato il festival della menzogna e del falso in atto pubblico, di fronte al contrasto tra quello che si osservava e come lo si descriveva nelle conferenze stampa, in questura o negli atti ufficiali delle forze di polizia, molti giornalisti hanno raccontato il vero. La Diaz invece è stata raccontata dalla polizia in modo vergognoso. Tanti giornalisti erano presenti all’interno della scuola e hanno visto le decine di barelle che passavano, ossa rotte, pianti, le pareti imbrattate di sangue. Di fronte a tutto ciò la polizia ha avuto l’ardire di sostenere che il sangue fosse dovuto a ferite che si erano procurati durante gli scontri avvenuti durante la giornata. La conferenza stampa in questura della domenica mattina senza la possibilità di fare domande, poi, resta una delle pagine più imbarazzanti della polizia italiana degli ultimi decenni, insieme alle presunte prove, poi rivelatesi false come le molotov, e a quella serie di oggetti che sarebbero state prove d’accusa e che andavano dai thermos, ai picconi presi dal cantiere che si trovava in una parte della Scuola. In quel momento i giornalisti hanno raccontato i fatti, poi la narrazione è cambiata di nuovo e a mio avviso è mancata un’azione adeguata di critica del comportamento delle forze di polizia nei mesi e negli anni seguenti. Per il racconto obiettivo c’è voluta la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che ha detto la verità, ovvero che i media, pur avendone avuto la possibilità, non abbiano mai identificato ciò che era accaduto dentro la Diaz come tortura. Ad affermarlo fu anche il PM Enrico Zucca. Quello che ritengo essere lo scandalo più grande è il fatto che i vertici della polizia siano riusciti ad ostacolare l’azione della magistratura rimanendo impuniti”.
L’esperienza vissuta lo ha segnato per la vita per questo, insieme ad altri giornalisti e testimoni del G8 nel 2002, esattamente un anno dopo i fatti, fonda il Comitato Verità e Giustizia per Genova. Negli anni il Comitato, che organizza iniziative a tutela delle vittime della repressione delle forze dell’ordine nell’esercizio della manifestazione del pensiero, anche con l’utilizzo degli strumenti di azione regolati e previsti dal diritto internazionale con particolare riferimento a quelli creati nell’ambito dell’Unione Europea, è diventato un punto di riferimento non solo per coloro che hanno vissuto i fatti del G8, ma anche per coloro che ancora oggi subiscono i soprusi e le violenze delle forze di polizia. Le testimonianze raccolte costituiscono un’eredità importante per le generazioni odierne, che del G8 ne hanno sentito solo parlare e che forse non ne comprendono appieno le ragioni: “Se dovessi raccontare ai giovani di oggi cos’è stato il G8 gli direi che è stata un’esperienza di mobilitazione della società civile unica nel suo genere per l’attualità delle argomentazioni che quel movimento ha portato avanti e per la sua portata globale. La vicenda di Genova dimostra che quando le democrazie vengono messe in discussione per ragioni politiche sono disposte a contraddire il dettato costituzionale e le libertà civili, e questa è un’evidenza che deve essere tenuta in conto da chiunque voglia essere attivo politicamente e abbia l’ambizione di cambiare l’ordine delle cose”.
Nel 2012 sono state emesse le sentenze di condanna per alcune delle forze dell’ordine accusate delle brutalità commesse. Ci si è dovuti appellare alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che nel 2017 ha accusato lo Stato Italiano di non aver fatto abbastanza per punire i carnefici del G8, per avere un barlume di giustizia, che non è mai arrivata, così come le scuse dello Stato e degli agenti di polizia. L’esito, o sarebbe meglio chiamarlo non-esito, di quella sentenza fa pensare che la storia di Genova non sia finita realmente e i motivi sono due: “Il primo è che le ragioni di quel movimento si sono rivelate giuste. Quel modello di sviluppo ha peggiorato negli anni lo stato del nostro pianeta, dei nostri sistemi, le ingiustizie si sono aggravate e il neoliberismo si è dimostrato senza futuro. Il secondo riguarda il tema della violenza e della sospensione delle garanzie costituzionali. Dobbiamo considerare e accettare il fatto che quella sospensione nella realtà non sia mai stata ripudiata dallo Stato e che le forze di polizia non abbiano mai chiesto scusa né riflettuto su quello che hanno fatto. Non c’è stato un rigetto di quei comportamenti da parte delle istituzioni, quindi siamo ancora in una fase in cui la polizia di Genova, mi riferisco a quella disposta ad agire al di fuori delle regole costituzionali, è ancora un’opzione sul campo. Sotto questi punti di vista quindi Genova non è un capitolo chiuso”.
‘Genova 2001: quali lezioni abbiamo appreso’. Le riflessioni di Amnesty
In occasione del ventennale di Genova, a fare il punto della situazione è anche Amnesty International – Italia, che parlando dell’eredità lasciata da quegli eventi, si sofferma su due questioni: il reato di tortura e la necessità di inserire i codici identficativi sulle divise delle forze dell’ordine.
Se la prima rappresenta una conquista, seppur tardiva perché arriva soltanto nel 2017 quando viene introdotta e riconosciuta come reato punibile, la seconda rappresenta una questione ancora in sospeso. Da qui nasce l’iniziativa di lanciare l’appello “codici identificativi subito”, per far sì che non si ripeta un’altra Genova e che si porti avanti con costanza l’impegno a garantire che le violazioni dei diritti umani non restino più impunite.