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Il semestre di Orban e i “pacifinti”


Viktor Orban va da Putin, per cominciare. Per il suo semestre di Presidenza ha fatto le cose in grande. Ha addirittura coniato un motto “Make Europe great again”, che fa eco allo slogan “Make America great again” stampato sui cappellini rossi dei sostenitori di Donald Trump.

All’inizio di Luglio, Viktor Orban è volato in visita al Cremlino, intestandosi una missione di pace che nessuno gli aveva assegnato. Come risposta, il giorno successivo, Vladimir Putin ha fatto lanciare un missile da crociera lungo sette metri e mezzo, da 2400 chilogrammi, contro i bambini di Kiev malati di cancro, sventrando uno dei più grandi ospedali di oncologia pediatrica dell’intera Europa geografica.

È questo il destino comune a tutti i “pacifinti”, mossi più dalla vanità, dal dogmatismo e dalla convenienza personale che dallo spirito umanitario. Diventano facili prede della propaganda dell’aggressore e creano soltanto ulteriori danni.

Viktor Orban è stato alla corte di Putin all’inizio del suo mandato di sei mesi come Presidente di turno dell’Unione Europea. Ci è andato senza confrontarsi con i vertici e la diplomatici dell’Unione Europea, senza confrontarsi con i capi di Stato e di Governo degli altri Paesi membri.Perché lui ha interpretato in questo modo il suo nuovo incarico.In realtà, non ci dovrebbe essere nulla di speciale nel semestre di Presidenza ungherese, in quanto tocca a tutti, prima o poi a rotazione e comporta compiti per lo più di pianificazione degli ordini del giorno delle discussioni.

Viktor Orban invece per il suo semestre di Presidenza ha fatto le cose in grande.

Ha addirittura coniato un motto “Make Europe great again”, che fa eco allo slogan “Make America great again” stampato sui cappellini rossi dei sostenitori di Donald Trump. E, per celebrare l’avvio dei sei mesi di Presidenza ha fatto editare uno video-spot degno dei migliori film d’azione. Una colonna sonora incalzante e ritmata accompagna un convoglio di auto blu e di volanti della polizia a sirene spiegate che sfrecciano lungo una strada, scortando lui, il protagonista investito di una missione salvifica.

La notizia è che il semestre ungherese è iniziato soltanto il 1 Luglio e che, mal contati, abbiamo dinanzi ancora quasi duecento giorni. Dalle parti di Kiev, sicuramente, più di qualcuno si augura che il nostro eroe preferirà dedicarsi ad altro piuttosto che alla “pace”. Una pace, a quel punto intesa soltanto come “non-guerra”, costruita non sul riconoscimento dei diritti di tutti, ma sulla rinuncia dei propri diritti sotto la minaccia di altre bombe. Perché, quando, poco più di un mese fa, la Russia ha reso noto il suo “piano per la pace” di questo si parlava. Prendendo in prestito le parole di Cecilia Sala su Il Foglio «Putin chiedeva agli ucraini di ritirarsi dall’Ucraina, senza promettere nemmeno di astenersi da una nuova futura invasione del Paese».

Oltre a voler tenere per sé tutto quanto ha distrutto e occupato in questi due e anni e mezzo, nel suo piano per la pace, il presidente russo chiedeva anche le città di Zaporizhzia e di Kherson, alle quali le sue truppe si sono soltanto avvicinate.

Non è bastato neanche questo a far togliere dalla testa ad alcuni osservatori e influencer della pace la convinzione che al Cremlino siano favorevoli ad una soluzione diplomatica e che sarebbe il Governo ucraino l’ostacolo alla soluzione.

Una convinzione che viene da lontano, già dal primo tavolo di accordo saltato nel 2022, poche settimane dopo l’invasione totale.

Quando i negoziatori di Mosca fra le proprie condizioni pretesero anche che Kiev rinunciasse a stipulare qualsiasi tipo di patto bilaterale, con qualsiasi altro Paese del mondo.Per l’Ucraina non sarebbe stata la conquista della pace, ma l’allestimento perfetto per una seconda invasione da parte di Putin.Tuttavia, il coraggio di negoziare e di alzare bandiera bianca, sono richiesti sempre e soltanto a Kiev. È questa la pratica di una certa corrente del pacifismo: rivolgere gli appelli all’aggredito. Il ripensamento per salvare vite umane non viene richiesto a chi bombarda, ma a chi viene bombardato, consacrando il privilegio della minaccia del più forte. La resistenza diventa suicidio collettivo, il compromesso diventa accondiscendenza, la vergogna diventa l’invito per i dittatori a ridisegnare il mondo.E, così, se la Russia può bombardare direttamente dal proprio territorio nazionale una città ucraina situata a pochi chilometri dal confine, la comunità internazionale va in tilt per settimane, prima di decidere se permettere a Kiev di difendere gli abitanti di quella città facendo sconfinare i propri missili.

Poco importa se nel frattempo i russi, dal loro angolo di tiro indisturbato, possono colpire un centro commerciale di quella  città, di Sabato pomeriggio, mietendo decine di vittime. E se, pochi giorni dopo quella autorizzazione giunta dalla comunità internazionale, la comunità di Kharkiv è potuta tornare a vivere una parvenza di normalità, riuscendo persino a celebrare il 21 Giugno, la Festa Internazionale della Musica, con concerti e dj-set all’aperto. Il valore della resistenza, su cui si fondano le democrazie del dopoguerra viene definitivamente ribaltato, in nome della stanchezza di noi altri, distanti milioni di chilometri dall’odore del sangue e dal fragore delle bombe. È un destino cui l’Ucraina è abituata da tempo, quello del pregiudizio, sin dai tempi di Euromaidan, quello che alcuni esponenti del pacifismo nostrano continuano a definire un colpo di Stato nazista.

Quello del 2014, non fu né un colpo di Stato, né era nazista.

Quella piazza era piena di gente ed evidentemente non potevano essere tutti nazisti.

In quella piazza sventolavano bandiere europee, quelle con l’azzurro stellato.

Si leggevano poesie, in quella piazza, come faceva il ventenne Serhiy davanti alle barricate, prima di essere colpito a morte dalla polizia agli ordini del Presidente di allora, il filo-russo Janukovyc. Era una piazza che ad un’unica voce chiedeva l’indipendenza definitiva del proprio Paese dopo secoli di esistenza sotto una potenza imperiale. Confondere questo tipo di patriottismo con il nazismo è pretestuoso e disonesto.

La retorica del nazismo è la trappola della propaganda di Putin, che tale considera tutto ciò che non è Russia. Eppure, alcuni esponenti del nostro pacifismo continuano a cascarci, etichettando in tal modo anche Zelensky e il suo Governo.

Andrebbe ricordato loro che, prima dell’invasione totale, proprio Zelensky era costante oggetto di critiche e di minacce proprio da parte della sparuta minoranza di estrema destra del suo Paese. Se, dopo qualche anno ha dovuto consegnare alcune medaglie al valore militare ad alcuni di questi è perché costoro sono fra quelli che combattono in prima linea.Del resto, in una prima fase, con un esercito mal equipaggiato, qual era quello ucraino del 2014, al fronte si riversarono molti volontari e fra questi soprattutto esponenti neonazi. È stato quindi in realtà il Presidente russo, con la sua guerra, ad alimentare la visibilità e a rafforzare l’immagine l’estrema destra ucraina, un motivo in più per non giustificarlo. Il pacifismo impregnato di mala fede fa sempre il gioco dell’aggressore.Elevare l’aggressore ad interlocutore, senza iniziative coordinate e condivise, è sempre un punto a favore di quest’ultimo.

Bene ha fatto Ursula Von der Leyen durante il suo discorso di insediamento al Parlamento Europeo a definire la visita di Orban a Mosca, una missione di appeasement. Del concetto di appeasement avevamo parlato anche nell’intervista di qualche mese fa ad Hana Perekhoda, analista ucraina che si era concessa al nostro giornale https://www.laredazione.net/lucraina-vista-da-dentro/.

Fino a quando Putin non deciderà di finire di bombardare i cittadini ucraini, continueremo ad assistere ad appelli per la pace, proferiti da attori istituzionali e da commentatori che si atteggiano come in un film d’azione, ma che proprio come un film, sono finti.