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Il tesoro del San José, si scatena la caccia


Venti miliardi in gioielli e oggetti preziosi giacciono in fondo al mare da oltre tre secoli. E ora si scatena la querelle tra gli Stati per recuperare il bottino.

Il San José era la nave ammiraglia di una flotta della Marina spagnola, composta dalla San Joaquin e dalla Santa Cruz e da quattordici navi mercantili, che nella primavera del 1708 era in azione nel Mar dei Caraibi.

Quando a fine Maggio, per il timore dell’avvicendarsi della stagione degli uragani, il capitano José Fernandez de Santillàn, decise di salpare dalla località panamense di Portobelo, verso Cartagena, in Colombia, con l’intenzione di tornare a casa, verso la corte di Re Filippo V, quattro navi britanniche, capitanate dall’ammiraglio Charles Wager, ingaggiarono contro di loro una feroce offensiva, nei pressi dell’Isla de Barù.

Erano i tempi della guerra di successione spagnola e gli inglesi cercavano in competizione con Spagna e Francia nei progetti di colonizzazione di quello che, ai tempi, era il Nuovo Mondo.

In quella battaglia, magistralmente raffigurata e tramandata dall’olio su tela del pittore Samuel Scott, persero la vita quasi in seicento, fra marinai, personale dell’equipaggio e soldati, e il galeone affondò portandosi con sé gioielli, argenti, smeraldi, cannoni di bronzo, anfore, ceramiche e circa undici milioni di dobloni d’oro, dal valore attuale di almeno venti miliardi di dollari.

Da tre secoli in quel pezzo del Mar dei Cairabi si aggirano archeologi, ricercatori ma anche avventurieri alla ricerca di quello che a tutti gli effetti è il più grande tesoro conosciuto al mondo, seppellito dalla sabbia sui fondali del mare. Soltanto nel 2015, dopo anni di ricerche, un Remus 6000 colombiano è riuscito a rilevare per la prima volta le immagini del relitto, in un’area indicativamente nei pressi delle Isole del Rosario. Sulle coordinate precise del luogo però c’è il massimo riserbo: l’area va protetta dai cacciatori di tesori.

Bisogna fare un ulteriore salto temporale alla scorsa settimana, però, a venerdì 22 febbraio 2024, per aggiungere un nuovo capitolo a questa affascinante storia. Nove anni dopo la prima localizzazione ufficiale, infatti, la Colombia del Prediente Gustavo Petro ha annunciato di voler avviare le operazioni di esplorazione, con lo scopo di recuperare qualche pezzo pregiato, analizzarlo e capire con certezza cosa si può salvare, di uno dei più preziosi ritrovamenti marini di tutti i tempi.

La missione è stata presentata nell’ambito del simposio «Sfide e prospettive nell’investigazione del galeone San José» presso il Museo Navale dei Caraibi a Cartagena e sono stati spiegati alcuni dettagli. Innanzitutto il costo: al cambio circa 4,5 milioni di dollari. Utilizzerà sistemi video con fari Lumen e robot sottomarini comandati da remoto, con pale sofisticate per evitare di modificare o danneggiare il relitto e preservarne il valore archeologico. L’esplorazione partirà in questa tarda primavera. Il recupero del tesoro, tuttavia, è un caso internazionale presso la Corte di arbitrato permanente delle Nazioni Unite, già dal 1989.  

A fare causa alla Colombia, infatti, fu la Sea Serch Armada, una società americana specializzata nel recupero di relitti, la quale sostiene di aver individuato il sito per la prima volta già nel 1982 ed oggi chiede un risarcimento danni pari a dieci miliardi di dollari, ovvero la metà del valore stimato del tesoro. La disputa legale con la Sea Search Armada sorse quando il Parlamento colombiano legiferò una testo che avrebbe riconosciuto alla compagnia americana un diritto pari solo al 5% del valore del tesoro, che comunque sarebbe dovuto esser sottoposto a tassazione. La controversia si riaccese nel 2007, dopo una pronuncia della Suprema Corte colombiana e successivi rigetti di diversi giudici statunitensi.

Ma non è tutto. Su quel tesoro che la Colombia dichiara patrimonio nazionale, alza la voce anche la Spagna, che rivendica come il relitto sia il suo, in quanto si trattava di una nave di Stato. Per non farci mancare niente, tra i litiganti si sono inseriti anche i Qhara, un gruppo indigeno della Bolivia, i quali affermano come il tesoro appartenga a loro, in quanto furono i loro antenati ad essere sfruttati per estrarre dalle miniere le materie prime per realizzare quei tesori. Va ricordato, che in quel territorio, ai tempi, c’era la più grande miniera d’argento conosciuta al mondo.

A smorzare gli animi è intervenuto il ministro della cultura del governo colombiano, Juan David Correa per il quale la missione della Colombia ha solo interesse archeologico e per contribuire alla scienza e alla cultura. «Dobbiamo smettere di considerarlo un tesoro – ha detto  – Si tratta di un patrimonio archeologico sommerso e ha un’importanza culturale e fondamentale per la Colombia»