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di Mattia Lasio
La violenza è il rifugio dei deboli e di chi non conosce il valore del dialogo. Come i mafiosi e chi avvalla le loro azioni criminali. Libero Grassi, di cui oggi ricorrono i trent’anni dalla scomparsa per opera del killer Salvatore Madonia, ne era a conoscenza e ha scelto di non chinare di testa. Ha scelto di rimanere con la schiena dritta, di non pagare il pizzo, di parlare di un sistema malato, violento e vile che cerca di trarre forza dai bisogni delle persone. «Libero Grassi è una pietra miliare nella storia della lotta alla mafia», dichiara fieramente Carmine Mancuso, presidente dell’associazione dei familiari delle vittime della mafia. «Il suo è l’esempio più nitido di eroismo civile. Un eroismo che affonda le sue radici nella quotidianità e che sa fare dell’attenzione alle piccole cose la forza per opporsi a chi prevarica».
La storia di Libero Grassi è la storia di chi dell’onestà ha fatto punto di forza: catanese, classe 1924, ma a Palermo già dal 1932, aveva una solida formazione culturale e politica, come dimostra la sua opposizione al regime fascista. Per lui la politica è sempre stato fare qualcosa di concreto, non lusinghe o facili promesse: laureato in Giurisprudenza, ha partecipato con la moglie Pina Maisano alla fondazione del Partito Radicale e ha militato nelle file del Partito Repubblicano. Mente brillante, spirito acuto: avrebbe potuto dedicarsi all’ambito giuridico e diplomatico, ma scelse di proseguire l’attività di famiglia assumendo la guida della fabbrica ‘’Sigma’’. I tentacoli di Cosa Nostra cercarono di infilarsi nel suo lavoro ma inutilmente: Libero Grassi ha sempre avuto un forte senso civico e di moralità e nessuna intenzione di piegarsi agli estorsori. ‘’Pagare è una rinuncia alla mia dignità’’, disse l’11 aprile 1991 a Michele Santoro durante una puntata del suo programma televisivo ‘’Samarcanda’’. A nulla servirono le minacce, a nulla servirono le telefonate del geometra Anzalone. Il pizzo Libero Grassi non lo pagò, nonostante combattesse quasi in solitaria una battaglia in cui il silenzio della Sicindustria, allora, ancora oggi risulta assordante e difficile da tollerare.
«Per lui la libertà è sempre stato un valore irrinunciabile, sia come commerciante che come uomo», aggiunge Carmine Mancuso. «Rinunciò alla scorta personale per far comprendere ai mafiosi che non era certo lui a doversi nascondere. Erano anni difficili, l’omertà regnava sovrana e chi rappresentava una voce fuori dal coro veniva eliminato». E le voci fuori dal coro, nonostante tutto, erano tante: il maresciallo Silvio Corrao, il capo della squadra mobile Boris Giuliano, il cronista Mario Francese. Trovarono tutti mille ostacoli davanti che non furono più forti del loro spirito critico. «La storia di Libero Grassi non può essere ricordata solo una volta all’anno», sottolinea Mancuso. «Libero non era un magistrato, non era un carabiniere né un poliziotto: poteva girare la faccia dall’altra parte, poteva farsi gli affari suoi. Eppure non lo ha fatto. Sapeva che la mattanza cominciata dal 1979 dalla mafia rispondeva a una specifica strategia terroristica. Sapeva della collusione della mafia con menti esterne che si sono servite di Cosa Nostra per i loro sporchi fini. Sapeva e non ha taciuto, usando le armi della lealtà per fare sentire la sua voce».
Una voce che non ha spento la turpe mano di Salvatore Madonia, quando gli sparò alle spalle mentre andava a lavoro. Una voce che il tempo non ha spento, rendendola ancora più forte e meritevole di essere ascoltata. «Il terreno di coltura di Cosa Nostra è fatto di gente intimidita o ricattata appartenente a qualsiasi strato della società», conclude Mancuso, «che crede di non avere scelta quando invece una scelta c’è. La storia di Libero Grassi lo dimostra e deve essere un monito per i tanti giovani che, spesso, si perdono dietro falsi guru. Sono le armi della cultura a fare la differenza, sono le armi che la mafia teme e che possono debellarla una volta per tutte».