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6 Luglio 2024Iran, Elezioni: il gioco di Khamenei con candidati “pedina”
«Non partecipate alle elezioni» è questo il motto che rimbalza nei social degli iraniani, dentro e fuori dall’Iran.
Le elezioni Presidenziali in corso in Iran sono considerate dalla maggior parte degli iraniani (e il fortissimo astensionismo del primo turno elettorale del 28 giugno lo conferma) come un gioco di potere in cui le regole le detta sempre lui: la Guida Suprema dell’Iran, Ali Khamenei. Far passare il ballottaggio di domani, 5 luglio, come una sfida tra conservatori e riformisti in realtà non fa che agevolare il regime, in quanto nessuno dei due candidati, né Saeed Jalili né Masoud Pezeshkian, sono portatori di cambiamento o di riforme, entrambi vogliono preservare il sistema e lasciare il potere in mano agli ayatollah. Per questo motivo in una teocrazia, come quella presente in Iran, dove le elezioni non sono libere e i candidati vengono scelti “dall’alto”, l’unica via che il popolo ha per manifestare il proprio dissenso e opporsi al regime è l’astensione.
Saeed Jalili e Masoud Pezeshkian, le ombre e i crimini dei candidati che si sfidano al ballottaggio.
Soprannominato “martire vivente” a causa di un incidente che gli fece perdere il piede destro mentre combatteva come membro dei Basij durante la guerra tra Iran e Iraq, Saeed Jalili è un politico ultra conservatore, già iscritto alle Presidenziali nel 2021, ma poi ritiratosi a sostegno di Raisi.
Dal 2007 al 2013 ha ricoperto il ruolo di segretario del Consiglio Supremo di Sicurezza Nazionale, mentre successivamente, per circa tredici anni, quello di membro e rappresentante della Guida Suprema nel medesimo consiglio.
La sua politica si basa su un credo fondamentalista, ravvisabile peraltro già nella sua tesi di dottorato The Paradigm (Foundation) of Political Thought of Islam in the Qu’ran, divenuta poi il libro The Foreign Policy of the Prophet of Islam, principi che lo hanno guidato in tutta la sua carriera, in special modo nel periodo in cui è stato segretario del Consiglio Supremo di Sicurezza.
– Repressione violenta contro il Movimento Verde
Nel 2009 a seguito dell’annuncio di vittoria delle elezioni Presidenziali di Ahmadinejad, sfociano in tutto il Paese manifestazioni di protesta campeggiate dallo slogan “Dov’è il mio voto?”. I manifestanti accusano il governo di aver pilotato le elezioni e per questo chiedono le dimissioni del nuovo Presidente, sostenendo che il reale vincitore sia Mir-Hossein Mousavi. Nasce così il Movimento Verde, con Mousavi, Zahra Rahnavard e Mehdi Karroubi riconosciuti come leader. È in questo contesto che Jalali, in veste di segretario del Consiglio Supremo di Sicurezza, ordina gli arresti domiciliari per tutti e tre i leader e comanda alla polizia e alle forze paramilitari, in particolare i Basij, di reprimere con ogni mezzo le proteste popolari, definendole “oppressione contro il sistema”. Durante le contestazioni di strada migliaia di persone verranno arrestate e uccise, altre prelevate dalle loro case per essere interrogate e incarcerate.
Sempre in quell’anno, nel mese di Agosto, Jalili comunica la chiusura del centro di detenzione di Kahrizak, centro in cui erano stati incarcerati, torturati e uccisi molti dei manifestanti sostenitori del Movimento Verde. Anche in questo caso il trattamento disumano che i detenuti ricevettero non fu altro che il riflesso della volontà di Jalili.
– Blocco di internet, filtraggio delle informazioni e censura
Spreading Justice denuncia che nel periodo in cui Jalili ha rivestito il ruolo di segretario e quello di membro del Consiglio Supremo di Sicurezza Nazionale, ha limitato fortemente la libertà di espressione, attuando restrizioni di internet che rendevano difficili le comunicazioni tra i cittadini. Questo è ad esempio avvenuto durante le proteste dell’Onda Verde nel 2009, durante le contestazioni del 2017 (periodo in cui il Consiglio ordinò di filtrare Telegram), ma anche durante la rivolta nazionale del 2019, anno che resterà nella memoria per l’uccisione di centinaia di persone e l’incarcerazione e la tortura di migliaia di iraniani; fino a giungere al blocco di internet più recente, quello del 2022.
Come già spiegato in un mio precedente articolo, in Iran da metà settembre 2022, ovvero dopo l’uccisione di Jina Mahsa Amini e l’intensificazione delle manifestazioni anti-regime, si sono verificate sostanziose interruzioni del funzionamento della rete internet e blackout che hanno riguardato i grandi fornitori, quali Irancell, Rightel e Mci; la censura inoltre è stata attuata anche verso Instagram e WhatsApp, provvedimenti che hanno isolato letteralmente la popolazione.
Masoud Pezeshkian, l’altro candidato, si definisce riformista, in realtà, andando ad analizzare il suo percorso si vedrà che così riformista Pezeshkian non è.
È impensabile immaginare che il regime degli ayatollah possa permettere a un candidato riformista (nel vero senso del termine) di partecipare alle elezioni Presidenziali. La candidatura di Pezeshkian, dunque, non è altro che uno “specchio per le allodole”, un tentativo zoppo della Repubblica islamica per attirare un numero maggiore di elettori ed evitare così che il regime venga screditato, nuovamente, da un forte astensionismo, cosa già successa nel primo turno e con le elezioni Parlamentari e dell’Assemblea degli Esperti di Marzo.
Ma la candidatura di Pezeshkian serve anche per mostrare, specialmente all’Occidente, che il regime iraniano in fondo permette una certa varietà di scelta tra i candidati, cosa in realtà non vera. Perchè qualora Pezeshkian vincesse, l’Iran non vivrebbe alcuna nuova stagione, nessuna primavera è prevista all’orizzonte; in quanto tutti i candidati, sebbene ognuno con le proprie peculiarità, non sono altro che la rappresentanza delle volontà di Khamenei.
– Perchè Pezeshkian non è un candidato riformista
Pezeshkian è un medico, è stato Ministro della Sanità e dell’Istruzione medica tra il 2001 e il 2005 nel governo di Mohammad Khatami, e già vice ministro della Sanità nel 1997, è stato inoltre rettore dell’Università di Scienze Mediche di Tabriz dal 1994 al 2000. Ciò che però appare interessante della sua biografia è che il candidato “riformista” è un insegnante del Corano, e che durante i suoi interventi pubblici cita spesso il Nahj al-balagha, un testo fondamentale per i musulmani sciiti.
Questo testo, scritto presumibilmente dall’Imam e quarto califfo Rashidun Alī ibn ʾAbī Ṭālib, ci svela un primo aspetto del pensiero di Pezeshkian. Nel Nahj al-balagha infatti è presente un sermone, il numero 80, che descrive le donne come «carenti di fede, carenti di azioni e carenti di intelligenza. Per quanto riguarda la carenza di intelligenza la prova è data dal fatto che la somma dell’intelligenza di due donne è uguale a quella di un uomo». Un testo quindi non proprio favorevole alle donne e alla loro emancipazione. L’idea che Pezeshkian ha delle donne però emerge soprattutto in un’intervista risalente al Novembre 2014 e rimbalzata in questi giorni sui social.
In questa intervista infatti il candidato “riformista” dichiara: «All’inizio della rivoluzione culturale quando l’uso obbligatorio dello hijab non era ancora stato introdotto, ho deciso di renderlo obbligatorio all’interno degli ospedali e delle università. All’epoca, dopo aver riferito ciò alla Corte Rivoluzionaria, ho emanato una direttiva secondo la quale tutte le donne avrebbero dovuto indossare il velo e abiti coprenti a maniche lunghe». Pensiero ribadito qualche anno più tardi in un’altra intervista, in cui ripete inorgoglito che durante la Rivoluzione culturale è stato responsabile della “ripulitura” delle università dalle influenze non islamiche, chiudendo ad esempio la sezione femminile dell’università perché frequentata da studenti maschi.
Un pensiero, questo, che non può essere certo definito riformista.
– Pezeshkian e il coinvolgimento nel caso di Zahra Kazemi.
È il 23 giugno 2003, la fotografa e giornalista iraniano-canadese Zahra (Ziba) Kazemi si trova all’esterno della prigione di Evin per fotografare un gruppo di famiglie di detenuti. Senza motivo viene arrestata dagli agenti dell’ufficio del procuratore di Teheran. Quattro giorni dopo viene dichiarata cerebralmente morta, a causa di un ictus diranno le autorità, in realtà Zahra muore per le torture e le violenze subite durante la detenzione.
Una morte sanguinaria che trova conferma nella testimonianza del medico del pronto soccorso dell’ospedale militare Baghiyyatollah al-Azam.
Shahram Azam, il dottore, che visitò Kazemi dichiarò:
«Osservandola la prima cosa che pensai fu che fosse stata picchiata. Il suo viso sembrava essere stato investito da un camion, e non semplicemente picchiato. Il volto era completamente livido e gonfio. L’osso nasale, che di solito ha una forma angolare con due ossa una accanto all’altra, era piatto, il che significava che era rotto; per questo non siamo riusciti a inserire il tubo attraverso il naso, ma abbiamo dovuto farlo passare per la bocca» e più avanti quando parla della terribile condizione delle unghie dei piedi, che appaiono strappate, afferma: «Si è trattato chiaramente di un pestaggio pianificato e non di uno scontro casuale».
Dopo questa testimonianza il dottor Azam ha chiesto asilo in Canada, e la salma di Kazemi è stata frettolosamente seppellita a Shiraz il 23 luglio contro la volontà del figlio.
Questo caso è rilevante perché all’epoca dei fatti Pezeshkian ricopriva il ruolo di Ministro della Sanità e dell’Istruzione medica; è quindi responsabile di aver ostacolato indagini indipendenti che chiarissero la vera causa di morte di Kazemi. Insieme ad altri funzionari, Pezeshkian è accusato di aver fornito informazioni false e di aver negato le torture subite dalla detenuta, impedendo così che la verità venisse rivelata e che gli autori del reato fossero identificati.