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Il caso delle sarte della Fenice e dei dipendenti dell’Arena
di Silvia Cegalin
Gli antichi portoni dei musei sbarrati, le poltrone e le sale dei teatri deserte e le vetrine dei cinema spente con i riflettori abbassati sono le immagini emblema del periodo pandemico. Mentre a negozi, centri commerciali e luoghi di culto, seppur subendo varie restrizioni, è stato concesso di restare aperti, agli spazi deputati alla cultura è invece scattato l’ordine di chiusura in base a un criterio che, ancora ad oggi, non risulta essere molto chiaro. Una sospensione delle produzioni culturali e dell’intrattenimento che è stata letteralmente priva di respiro, durando lunghi mesi.
Eppure, chissà se alle persone, oltre alle visite sfrenate ai centri commerciali, si fosse permesso di assistere in sicurezza a qualche opera teatrale, a un concerto o ad una mostra, forse, a questo punto, saremmo cittadini meno affannati e ansiosi e, se non proprio in grado di vivere armoniosamente insieme, probabilmente (ma la mia è solo un’ipotesi) saremo meno timorosi verso i nostri simili e senza quella sete di recuperare il tempo perduto che comunque non torna più.
L’Arte avrebbe potuto insegnarci tanto. Durante una pandemia l’arte e la cultura erano per logica le uniche cose irrinunciabili, le sole che avrebbero potuto darci forza, perché attraverso la loro capacità di straniamento e immersione ci avrebbero permesso la fuga momentanea da un clima pesante ed oppressivo, permettendoci di distrarci un istante dalla realtà, senza negarla, imparando pure qualcosa di nuovo.
La soluzione ai teatri e ai musei chiusi si chiama ItsArt
Tuttavia al silenzio diffuso dei palchi e delle sale vuote si frapponevano le grida di protesta di artisti e lavoratori del settore culturale e artistico che invocavano a gran voce che si trovassero soluzioni atte a contrastare la dilagante crisi economica che stava intaccando istituzioni, enti culturali e i lavoratori.
Per rimediare alla chiusura dei luoghi simbolo della cultura e dell’intrattenimento, il Ministero della Cultura non è stato però indifferente e, comprendendo l’importanza che le arti hanno all’interno delle comunità, ha cercato un’alternativa che garantisse ad esse di trovare uno spazio che si conformasse al contesto sociale di quel particolare e inatteso momento storico.
Non è un caso, dunque, che la strada scelta per sopperire alla chiusura dei palcoscenici e dei musei è stata la medesima che già in precedenza si era percorsa nell’ambito dell’istruzione e del lavoro: ossia la pratica da remoto (in questo caso della visione) attraverso piattaforme appositamente costruite.
Se lo smart working e la didattica a distanza erano riuscite a evitare lo stop totale di questi due ambiti – nonostante le svariate problematiche emerse nel corso della loro attuazione, come ad esempio il digital divide presente sul territorio italiano – perché lo stesso risultato non si poteva ottenere provando a riproporlo anche per il settore della cultura?
Questa, probabilmente, è stata una tra le considerazioni che ha fatto nascere ItsArt, la piattaforma ideata dal ministro della cultura Dario Franceschini, creata nell’aprile del 2020 e avviata lo scorso maggio con lo scopo di far conoscere e distribuire i prodotti culturali made in Italy, in una modalità online che si sostituisse alla visione diretta e in presenza. Grazie a questo sistema, le mostre museali e le rappresentazioni teatrali sarebbero entrate direttamente nelle case degli italiani, evitando che le persone si spostassero e uscissero di casa, scongiurando così il rischio di un aumento dei contagi.
La proposta, tuttavia, già alla sua ufficializzazione pubblica di aprile dello scorso anno ha scatenato non poche polemiche da parte dei rappresentanti di settore. Per gli esperti trasformare il palcoscenico in una modalità fruibile a distanza e priva perciò del pubblico equivaleva allo snaturamento delle arti performative che nella resa dal vivo rintracciano la loro essenza (interessante è infatti notare come nelle lingue europee il termine spettacolo è sempre seguito dall’aggettivo vivo: spectacle vivant per il francese, living arts per l’inglese e spettacolo dal vivo per l’italiano), si intuisce dunque che nella compresenza fisica tra attori e spettatori si individua la caratteristica principale delle arti sceniche.
Il modello ItsArt piace poco: tra dubbi e carenze tecniche
A parte queste perplessità, le critiche verso ItsArt hanno riguardato anche il livello qualitativo del prodotto in sé.
Visitando il sito di ItsArt si noterà che è diviso in tre categorie: il Palco per gli spettacoli teatrali, l’ opera e la danza, i Luoghi, dedicato in prevalenza agli spazi museali, e le Storie, un mix tra documentari e film italiani.
Alcuni contenuti sono gratuiti, malgrado ciò prevalgono quelli a pagamento e che possono essere noleggiati o acquistati con un costo che varia dai 2.99 euro fino ad arrivare a 9.90 euro. Fin qui niente di anomalo: anche per andare a teatro o al museo si paga, il problema di base è però un altro e risiede nel fatto che ItsArt nasce con l’aspirazione di raggiungere più cittadini possibile, specialmente chi non ha un teatro o un centro culturale nella propria città o non può permettersi questo tipo di svago e, invece, attuando questo metodo i dislivelli sociali non vengono dissipati ma restano.
Inoltre se si confrontano i prezzi con quelli di Netflix, piattaforma che lo stesso Ministro ha spesso associato a ItsArt, farsi un abbonamento a Netflix (opzione non prevista in ItsArt) è certamente più conveniente, anche a fronte del fatto che in RaiPlay si possono trovare più o meno gli stessi contenuti di ItsArt e in versione gratuita. Quindi ItsArt non rappresenta una novità, ma qualcosa di già visto e che, almeno fino ad adesso, non ha riscosso molto successo.
Un altro aspetto poco trasparente concerne invece la gestione della piattaforma. Se un 51% appartiene al Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo (Mibact) in collaborazione con la Cassa Depositi e Prestiti, il restante 49% è di CHILI spa, azienda italiana operante nella distribuzione di video on demand e fondata nel 2012 dal politico e manager Stefano Parisi.
Se si visita il sito di Chili infatti quello che salta subito all’occhio è che essa non è altro la versione più “mondana” di ItsArt, con l’unica differenza che in quest’ultima si trovano contenuti teatrali e visite virtuali al museo. A questo punto ci si domanda se creare una piattaforma ex novo fosse davvero necessario e non sarebbe stato più utile invece potenziare il sito, ad esempio di RaiPlay, di per sé già ben strutturato e avviato.
Restano comunque molti dubbi sul fatto che l’arte possa essere esperita a distanza, perché l’esperienza di un quadro osservato dal vivo rimarrà sempre insostituibile.
La condizione precaria dei lavoratori e delle maestranze dello spettacolo.
Come già riferito il mondo dello spettacolo è stato il più colpito durante la pandemia, per questo il 10 giugno il Consiglio dei Ministri ha approvato il disegno di legge per la riforma del Codice dello Spettacolo che come si può leggere nel comunicato stampa del MiC: «conferisca al settore un assetto più efficace, organico e conforme ai principi di semplificazione delle procedure amministrative e ottimizzazione della spesa, migliorando la qualità artistico-culturale delle attività, incentivandone la produzione, l’innovazione e la fruizione da parte del pubblico, con particolare riguardo alla educazione permanente».
Oltre a ciò, il disegno di legge prevede: ridisegnare il funzionamento del sostegno pubblico ai vari comparti artistici, il riordino e la revisione degli ammortizzatori, delle indennità e degli strumenti di sostegno economico temporaneo (SET) in favore dei lavoratori dello spettacolo, potenziare l’Osservatorio dello spettacolo e istituire il registro nazionale dei lavoratori operanti nel settore.
Tuttavia, nella pratica i lavoratori delle arti e della cultura hanno denunciato, tramite la Rete InterSindacale Professionist* Spettacolo e Cultura – Emergenza Continua, condizioni sfavorevoli e contraddizioni da parte di un sistema che non li tutela in modo soddisfacente. Prova di questo “malcontento” sono state le recentissime proteste che solo nel territorio veneto hanno coinvolto due istituzioni molto importanti a livello internazionale, come la Fenice di Venezia e la fondazione Arena di Verona.
Per le messe in scena di Rinaldo di Händel e per il Rigoletto di Verdi le sarte di scena hanno rifiutato il lavoro offerto a causa di condizioni lavorative che ripresentavano un’intermittenza lavorativa priva di tutele e diritti, come ad esempio in caso di malattia. Le sarte, tutte altamente specializzate, per ritornare a lavorare hanno chiesto alla Direzione del personale della Fenice un contratto di due mesi a tempo determinato. La loro richiesta non sembra nulla di pretenzioso, anzi.
Se da una parte ci sono le sarte, dall’altra troviamo i lavoratori dell’Arena. L’Aida prevista il 15 luglio all’Arena è infatti andata in scena in maniera ridotta a causa dello sciopero indetto da Slc-Cgil, Fistel-Cisl, Uilcom-Uil, Fials-Cisal e le Rsu a cui hanno aderito l’80% dei dipendenti, i quali chiedevano continuità, garanzie e trasparenza sui conti e i bilanci della Fondazione.
I sindacati riferiscono che lo sciopero è stato necessario in quanto: «Un atteggiamento di totale chiusura della Direzione non ha permesso la trattativa prevista dalla legge sulla Nuova Dotazione Organica. Le poche comunicazioni consegnate, lacunose e volutamente non ufficiali, prefigurano un pesante depauperamento delle maestranze artistiche e tecniche direttamente impiegate nella produzione, che sono il vero valore che contraddistingue una Fondazione lirica, a favore di un ulteriore aumento delle figure dirigenziali e di un rafforzamento della struttura amministrativa, con manifeste intenzioni di stabilizzare figure reclutate al di fuori dei meccanismi di selezione pubblica» (fonte comunicato stampa).
Azioni, queste di Venezia e Verona, che ci fanno meglio comprendere quanto i lavoratori e le maestranze dello spettacolo meritino che le loro figure professionali rientrino all’interno di una progettualità che includa garanzie, riconoscibilità e lotta alla precarietà, tutti fattori che attualmente non sembrano ancora attuabili.
Oltre agli investimenti in nuove piattaforme che promuovano la cultura, sarebbe perciò essenziale investire in una maggiore tutela di coloro che l’arte scenica la fanno, la producono e la vivono, perché, senza di loro, i teatri, i musei e i cinema rischiano di restare chiusi a tempo indeterminato.
Non bisognerebbe perciò mai dimenticare che, dietro a una grande opera, ad agire ci sono dei professionisti che, grazie al loro lavoro, permettono ad essa di esistere e a noi di esserne partecipi.