Putin non è la Russia, la Russia non è Putin
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di Salvatore Baldari
Nell’analizzare l’invasione di Putin nel territorio ucraino, ci siamo abituati (e forse convinti) a ricercare le sue cause espressamente nel passato, andando a sfociare, talvolta, persino in conclusioni giustificazioniste e negazioniste.
Un approccio, questo, che tuttavia non ci permette di inquadrare l’atto militare e criminale del Cremlino, nel presente e nel futuro.
Sarebbe sufficiente allargare lo sguardo, per cogliere il profondo cambiamento degli equilibri globali, già all’orizzonte.
L’apertura dei Giochi Olimpici invernali di Pechino, del 4 Febbraio 2022, ad esempio, può essere considerata una sliding-doors troppo poco dibattuta nei media e fra i sedicenti intellettuali. In quell’occasione, il padrone di casa Xi Jiping e l’ospite d’onore Vladimir Putin hanno messo le proprie autorevoli firme su un documento che consolida l’amicizia strategica fra i due e, soprattutto, esprime – nero su bianco – la concezione filosofica alla base della loro visione del mondo.
Fra le righe di questo documento si legge come, a loro avviso, i diritti umani, solitamente considerati al di sopra di qualunque regimo politico, non siano universali, ma nazionali e quindi ogni Stato deve stabilire quali essi siano e come e se debbano essere tutelati.
I due leader orientali scrivono di vedere la rivendicazione dei diritti umani come una “grave minaccia” (serious threats) alla sovranità degli Stati.
Nel documento si parla anche di democrazia.
Loro si definiscono democratici perché la democrazia non ha una forma definita come abbiamo imparato noi, una forma definita fatta di libertà di stampa, tutela delle minoranze, contendibilità delle posizioni apicali, separazione dei poteri, libere elezioni, sistema di pesi e contrappesi.
No. La democrazia, per Xi Jiping e Vladimir Putin significa semplicemente mirare all’interesse collettivo, al di là del fatto che la stessa persona possa essere al potere per decenni, che gli oppositori vengano perseguitati o che sia applicata la censura ai mezzi di comunicazione. La democrazia si legge “assume le forme della tradizione di ogni Paese”.
La celebrazione identitaria dei due Paesi permette, così, di sostenere che l’Ucraina e Taiwan non abbiano connotati storici.
Nel documento si promuove uno sviluppo delle regioni euroasiatiche accanto alla nuova Via della Seta, descrivendo pertanto dei confini geografici che ambiscono all’ autosufficienza.
In questo contesto assumono un valore strategico alcuni passaggi, forse trascurati, come la creazione di un sistema di pagamenti parallelo allo Swift o le sperimentazioni di una moneta digitale cinese, sino all’allontanamento della rete di internet mondiale da parte dei due Paesi.
Due Paesi che sono i motori trainanti della Organizzazione per la Cooperazione di Shangai, un meccanismo nato nel 2001 per favorire la risoluzione di dispute territoriali fra Cina, Russia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan.
L’organizzazione, nel corso degli anni, ha intensificato le proprie attività nel campo della sicurezza e dell’energia e si è allargata con l’adesione di India e Pakistan.
Le potenzialità e le finalità di questa organizzazione sono ancora inesplorate e molti analisti non hanno dubbi nel definirla una sorta di embrione di un’alleanza da contrapporsi a quella atlantica.
Una contrapposizione cristallizzata marcatamente sugli schermi del Palazzo di Vetro di New York, sede dell’Onu, in occasione del voto di inizio Aprile sulla risoluzione per sospendere la Russia del Consiglio sui Diritti Umani, dopo le barbare stragi di civili ordite a Bucha, Irpin e Dymerka.
Sono stati 24 i Paesi contrari e 58 gli astenuti, che messi accanto ai 93 che hanno votato a favore, raccontano di un mondo nettamente spaccato in due.
Non è una coincidenza, se tutti i Paesi accomunati da una determinata concezione dei diritti umani e della democrazia, al di là della loro posizione geografica, abbiano premuto lo stesso tasto, al momento della votazione.
C’è un secondo livello di lettura dell’esito di questo voto all’Assemblea Generale dell’Onu.
Su un totale di 54 Paesi africani, sono stati quarantaquattro a non aver votato contro il Cremlino, testimoniando l’ormai radicata presenza russa nel continente.
Mentre noi europei abbiamo fatto dell’Africa il palcoscenico di un dibattito infantile, declinato in un derby fra porti aperti contro porti chiusi, Russia e Cina si spartivano i favori e le simpatie dei regimi africani, inviando propri mercenari per sedare le rivolte delle martoriate popolazioni locali, in cambio di risorse naturali strategiche e di scambi commerciali.
La Repubblica Centrafricana può essere definita la portaerei di Mosca nel continente, il trampolino di lancio dell’offensiva russa nell’intero continente. E non è un caso se centinaia di combattenti organizzati sono partiti proprio da quel territorio per dare man forte all’esercito ufficiale di Putin in Ucraina.
Un altro caso emblematico è quello del Sahel, quella cintura di terra che divide idealmente il Nordafrica dalla savana, comprendente Mali, Niger, Ciad, Sudan, Mauritania, Burkina in cui la Russia ha sfruttato e fomentato il sentimento anti-francese, favorendo i colpi di Stato di golpisti locali.
L’Africa è per gran parte un calderone incandescente in cui ribollono conflitti etnici e tribali, corruzione, estorsioni, siccità, erosione del suolo, crescita demografica, estremismo islamico, disoccupazione, instabilità, inesistenza di servizi e infrastrutture.
Prima lo capiremo, meglio sarà per tutti noi. Magari ne parleremo in un altro approfondimento.
Meno sbilanciata e forse meno inattesa è stata la divisione fra gli Stati del centro e Sudamerica, con Venezuela, Cuba, Messico, Bolivia, Nicaragua, El Salvador e naturalmente Brasile dalla parte di Putin. E proprio al Brasile, la Russia ha recentemente chiesto sostegno all’interno del Fondo Monetario Internazionale e del G20 per aiutarla a contrastare le sanzioni occidentali.
Una ultima chiave di lettura che ci suggeriscono gli schermi del Palazzo di Vetro di New York con i pallini verdi, rossi e gialli accanto i nomi dei singoli Paesi è che la porzione di mondo non schieratasi contro l’invasione di Putin rappresenta i Paesi più popolosi in assoluto e quelli con le proiezioni demografiche più favorevoli.
La sola Nigeria, ad esempio, fra pochi decenni conterà più abitanti dell’intera Unione Europea. Alcune megalopoli sudamericane e asiatiche, saranno da sole più grandi di nazioni come l’Italia, la Spagna, la California.
Cina ed India insieme sfioreranno i quattro miliardi di persone, ben oltre la metà della popolazione globale.
Il tema demografico è strettamente collegato al tema della democrazia.
Quale sarà il ruolo delle democrazie liberali nel mondo del 2050?
Il corso della storia sta subendo un’accelerazione brusca e ormai inarrestabile.
Se il Novecento è stato caratterizzato dalla contrapposizione fra comunismo e capitalismo, dopo qualche decennio di assestamento con la piena globalizzazione mondiale, questo secolo si sta sempre più incastonando in una contrapposizione fra capitalismo democratico e capitalismo autocratico.
C’è un problema enorme per il primo modello, il nostro che, già oggi, sembra essere sempre più una eccezione in mezzo alla “Pangea autocratica” diffusa sulla faccia della Terra.
Le democrazie liberali sono in una profonda crisi in cui paradossalmente i cittadini sentono lontane le proprie autorità, hanno difficoltà a riconoscere chi detiene i poteri, lamentano la lentezza e la farraginosità delle decisioni.
Alcuni, rifugiandosi nelle svariate teorie del complotto o nelle proprie comode gabbie ideologiche, accusano persino la mancanza di libertà, confondendo i desideri con i diritti, rifiutando le categorie morali dell’obbligo, del rispetto e della convivenza civile.
C’è un problema enorme con le democrazie liberali, incapaci troppo spesso di programmare a lungo termine.
La sfida è trovare il modo di trasformare le nostre democrazie in democrazie decidenti.
La sfida è uscire dalla crisi della democrazia, senza uscire dalla democrazia per come noi la conosciamo.
Perché non ci lasceremo mai ammaliare da chi ci racconta che i bambini possono crescere felici anche sotto i regimi totalitari…(o forse sì?)