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Non solo digital divide, ma anche l’opportunità per molte professionalità di lavorare dalle proprie città di origine
di Silvia Cegalin
In questo periodo storico dominato da continui processi sociali in trasformazione, il lavoro è stato uno dei settori più coinvolti nel processo di cambiamento, in special modo nella sua funzionalità operativa, ossia nella modalità di svolgimento. Il diffondersi della pandemia da covid-19 e le misure di contenimento del virus che raccomandavano fermamente il limitare degli spostamenti e le uscite dalla propria abitazione, hanno condotto a un’alternativa procedura lavorativa, non più fruita nella sede o negli uffici aziendali, ma direttamente da casa. Pratica inserita anche nelle disposizioni governative emanate nel Decreto del 1° marzo 2020, e riconfermate in quelle del DPCM del 14 gennaio 2021, in cui il lavoro a distanza viene fortemente consigliato.
Migliaia di lavoratori per evitare di muoversi per recarsi nella propria sede lavorativa sono stati quindi costretti a lavorare da remoto. Metodologia che ha preso il nome di smart working, termine che oramai fa parte del nostro vocabolario quotidiano, ma che proprio per questo, spesso, rischia di essere frainteso o banalizzato, nonchè sovraccaricato da stereotipi e luoghi comuni che confondono ancora di più il vero significato di questo termine.
Per capire al meglio cosa sia lo smart working bisogna perciò partire dal suo significato, per poi analizzare una macro questione ad esso connessa: il digital divide.
Lo smart working non è il telelavoro.
In alcuni dibattiti pubblici solitamente si sente sostituire la parola smart working con quella di telelavoro, ma sono veramente la stessa cosa?
Sebbene entrambi si affidino a strumenti tecnici e informatici simili e trovino comunanza nel collocarsi al di fuori della tradizionale location lavorativa, come ad esempio l’ufficio, lo smart working e il telelavoro differiscono sostanzialmente sia a livello teorico che normativo.
Per telelavoro si intende la trasposizione esatta della propria postazione d’ufficio in una sede differente, spesso corrispondente con il luogo abitativo. Appropriandosi delle medesime strumentazioni operative presenti nel luogo di lavoro, il telelavoro si conferma, perciò, come tipologia di lavoro fisso, identificabile nella caratteristica di stabilità, con l’unica differenza che invece di essere svolto in un ambiente comune viene svolto da casa.
Diverso invece è lo smart working- lavoro agile, già per sua stessa definizione flessibile, indicante l’adattamento delle risorse e dei mezzi che il lavoratore possiede in base alle esigenze lavorative che via via incontra. In questo caso non è prevista una postazione fissa, anzi, al contrario, è proprio la mobilità il fattore determinante che identifica questa tipologia di pratica lavorativa, che nel suo essere remoto e agito in spazi e tempi altamente variabili, proietta il mondo aziendale verso dinamiche più aperte e meno settoriali.
Ed è stata specialmente questa seconda categoria, quella dello smart working appunto, ad essere adottata come soluzione lavorativa principale durante il periodo pandemico. Da una ricerca del 2020 condotta dall’Osservatorio Smart working della School of management del Politecnico di Milano, è emerso che nella primavera scorsa circa 6,5 milioni di italiani hanno lavorato in smart working, ossia un 1/3 dei lavoratori dipendenti italiani.
Il 94% delle Pubbliche Amministrazioni, il 97% delle grandi imprese, e il 58% delle Piccole e Medie imprese hanno infatti permesso ai loro dipendenti di svolgere le loro attività a distanza, garantendo così il proseguimento delle task e degli obiettivi aziendali attraverso una modalità che si plasmasse ai molti imprevisti e cambiamenti presenti in quel periodo.
Questo a conferma di come un lavoro basato sulla flessibilità e una maggior autonomia, permetta al lavoratore un’effettiva libertà organizzativa dei propri tempi, senza dover tuttavia trascurare gli obiettivi e i compiti a lui assegnati. Anzi, pare che l’indipendenza individuale, ove raggiunta con successo, abbia coinciso con un incremento della qualità delle prestazioni, perché il dipendente, non più soggetto a rigide misure, svolge le attività con maggiore attenzione e intraprendenza.
L’altra faccia dello smart working: il digital divide
Se da una parte lo smart working è divenuto elemento complementare e necessario per fronteggiare eventi storici inaspettati, come in questo caso la pandemia, apportando ad una radicale trasformazione del mondo del lavoro. Dall’altra, l’adozione di questa pratica agita da remoto ha evidenziato le differenze e il divario tecnologico che sussistono in determinate aree del paese e tra le diverse classi sociali.
È risaputo infatti quanto l’Italia sia in ritardo rispetto al resto d’Europa nell’innovazione digitale; nelle tecnologie si investe sempre troppo poco, o male, inoltre gli investimenti si presentano spesso nelle medesime aree geografiche, il Nord, e questo fattore non fa che alimentare le disuguaglianze sociali già parecchio marcate tra settentrione e meridione.
Divario che viene indicato con il termine inglese digital divide che, se da un lato comprende una carenza di competenze e una bassa, se non assente, alfabetizzazione informatica (secondo l’ISTAT nel 2019 solo il 53% degli occupanti tra i 25-64 anni aveva competenze digitali, valore ben più basso del 68% della media europea), dall’altra è costituita dall’assenza di strumenti tecnologici, come la connessione a banda larga, impedendo di fatto un‘evoluzione digitale equa ed omogenea.
Un divario digitale che lo smart working e la didattica a distanza hanno fatto emergere in maniera ancora più forte, dal Rapporto sul benessere equo e sostenibile (BES) dell’ISTAT, alla voce Innovazione, ricerca e creatività, si legge che: «Nel 2020 un terzo delle famiglie italiane non dispone di computer e accesso a Internet da casa. Le differenze sono molto accentuate guardando il titolo di studio: dal 7,2% delle famiglie in cui almeno un componente è laureato si passa al 68,3% di quelle in cui in cui il titolo più elevato è la licenza media. Aumenta lo svantaggio delle famiglie del Mezzogiorno: nel 2020 il gap rispetto alle famiglie del Nord è di 10 punti percentuali, 3 in più rispetto al 2010».
È chiaro che questa frattura influisce sul livello di agibilità dello smart working, soprattutto in quelle aree critiche dove manca una connessione adeguata o gli strumenti necessari per svolgere il lavoro a distanza, rimanendo perciò un miraggio, non permettendo alle imprese e aziende minori o con scarse risorse economiche di evolvere nei propri sistemi gestionali, bloccando il salto di qualità degli stessi dipendenti.
A conferma di questo parlano i dati: da uno studio condotto agli inizi del 2021 dall’Osservatorio Smart working, è emerso che soltanto il 68% dei lavoratori è riuscito a portare a termine tutte le attività richieste, il 29% ha concluso solo una parte delle task, mentre il restante 3% non è stato in grado di svolgere la maggior parte dei compiti richiesti, a causa o di un carente piano di digitalizzazione o a problematiche connesse alla banda larga.
Sebbene lo smart working mostri le debolezze infrastrutturali italiane, mettendo in risalto la profonda divergenza tra Nord e Sud, e tra classi istruite e poveramente formate, dall’altro chiama in causa attori nuovi, agevolando la formazione di dinamiche manageriali ed organizzative, fino ad ora, quasi sconosciute.
L’espandersi dello smart working ha infatti generato quel fenomeno conosciuto come South working. Il South working (Lavorare dal Sud) appare centrale per il superamento del digital divide, perché dall’inizio della pandemia ha permesso a circa quarantacinquemila dipendenti delle grandi imprese del centro-nord di poter lavorare dalle proprie città di origine. Fatto che ha riacceso l’attenzione sulla dispersione di capitale umano e sulla conseguente fuga delle professionalità dai territori meridionali, e che attraverso la pratica del lavoro agile propone una soluzione alternativa, con la speranza che questo possa servire da stimolo alle istituzioni statali e private per rilanciare il Sud in veste di protagonista e valido competitor.
A fronte di queste considerazioni, è evidente quanto lo smart working sia una tra le possibilità per ripensare a nuove frontiere lavorative, oltre che essere la via per includere maggiormente le tecnologie e i sistemi informatici nei processi lavorativi, accrescendo le competenze digitali dei dipendenti che in questo modo potrebbero ambire a raggiungere il livello di competizione dei loro colleghi europei, in un rilancio d’immagine in cui a trarne beneficio sarebbe soprattutto l’Italia stessa.