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18 Marzo 2022Le Grandi Dimissioni in Italia. Una nuova cultura del lavoro?
di Marco Bellinzona e Simone Zanotti
Nel giro di tre mesi, da ottobre a dicembre 2021, 559mila lavoratori italiani si sono dimessi volontariamente dal proprio posto di lavoro. È il dato più alto registrato nell’ultimo decennio.
Dimissioni volontarie: né licenziamenti né pensionamenti, ma contratti di lavoro cessati su richiesta esplicita del lavoratore. Tutt’altro che un’anomalia, il record di dicembre osservato dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali (ultimo aggiornamento: quarto trimestre 2021) sarebbe solo il picco di un vero e proprio trend del mercato del lavoro italiano. Infatti, al di là delle oscillazioni infrannuali, negli ultimi anni la curva delle dimissioni volontarie è andata crescendo, fino a raggiungere la cifra record di dicembre. Basta pensare che nello stesso trimestre del 2017 (ottobre-dicembre) le dimissioni ammontavano a 373mila unità: da allora sono aumentate del 50%.
Crescita del numero delle dimissioni volontarie in Italia
Certo, durante la pandemia il fenomeno si è bruscamente interrotto – d’altronde a nessuno conveniva dimettersi in pieno lockdown. Tuttavia, con la ripresa economica, la curva non ha tardato a riprendere, fino a superare abbondantemente i valori del 2019.
L’emergenza globale ha incalzato in maniera consistente il fenomeno delle dimissioni. Stando ai dati registrati dal Ministero, fra ottobre e dicembre sono stati cessati in tutto 3,5 milioni di contratti di lavoro. Fra le varie cause (licenziamenti, pensionamenti, cessate attività) le dimissioni volontarie hanno rappresentato il 19% del totale. Anche questa percentuale è un picco insolito, considerando che nello stesso trimestre del 2017 le dimissioni costituivano il 14% delle cessazioni totali.
Dimissioni volontarie su totale cessazioni dei contratti di lavoro
Big Quit, ma anche Big Offer
Sulle ragioni di questa tendenza, in crescita costante da anni e incentivata dalla pandemia, si dovrebbe indagare alla luce di un contesto più ampio. Il caso italiano, infatti, non è isolato: oltreoceano si parla già diffusamente di Great Resignation (o Big quit), il fenomeno delle grandi dimissioni che neanche lì accenna a scendere. Sebbene i numeri siano nettamente superiori rispetto a quelli italiani, i due paesi condividono un’analogia interessante: il trend delle dimissioni è letteralmente decollato con l’avvio della pandemia.
È vero, l’occupazione americana è in aumento, ma di pari passo è stato rilevato che solo a novembre 2021 ben 4,5 milioni di statunitensi hanno rassegnato le proprie dimissioni, vale a dire il 3% della forza lavoro complessiva. Quello di novembre è stato un record mensile assoluto, come le 47,4 milioni di dimissioni registrate in tutto il 2021.
Ma sul mercato del lavoro americano quello delle Great Resignation non è l’unica anomalia: di pari passo, c’è stata anche un’impennata di offerte lavorative. Se le dimissioni (job quits) sono un record, mai come quest’anno negli US si è registrato un aumento tanto marcato di offerte di lavoro. Da gennaio a dicembre 2021, lo U.S. Bureau of Labor Statistics ha registrato un incremento di job offers del 54% – totale annuale: 10,9 milioni di posizioni scoperte.
Big Quit, quindi, ma anche Big Offer. Questa correlazione lascia intendere che, quando c’è disponibilità lavorativa, i workers americani si dimettono volentieri perché sanno di poter trovare di meglio. In altri termini, non stanno bene dove si trovano attualmente.
Job quits a confronto con le job offers
Al di là del lavoro
L’insolita disponibilità di posizioni lavorative in America può dirci di più sulla Great Resignation. Avendo possibilità di cambiare mestiere, sono sempre più gli americani che rassegnano le proprie dimissioni. Già l’anno scorso un’indagine di McKinsey, condotta su un campione geografico esteso (6mila lavoratori fra Australia, Canada, Singapore, Regno Unito e Stati Uniti), aveva rilevato che il 40% degli intervistati (46% per gli americani) voleva lasciare il proprio lavoro – stessa percentuale individuata anche dal Work Trend Index di Microsoft. Di questi, la maggioranza aveva dichiarato di volersi dimettere pur senza avere ancora una valida alternativa in mano (64%).
Anche in Italia, come negli Stati Uniti, il Big Quit si associa all’aumento del tasso di occupazione che, secondo le rilevazioni dell’ISTAT, a dicembre 2021 ha eguagliato i valori pre-pandemici, riportandosi al 59%.
Il confronto con gli States svela un’altra analogia. Anche nella penisola la disoccupazione è calata: 0.8 punti percentuali in meno rispetto a febbraio 2020, portandosi al 9% – diminuisce anche per gli under25, ma come informa l’Eurostat l’Italia è tuttora il terzo paese in Europa per tasso di disoccupazione giovanile (media annuale al 29,2%).
Media 2021 della disoccupazione giovanile (under 25)
Per vederci meglio, l’Aidp (Associazione per la Direzione del Personale) ha svolto un’indagine su un campione di 600 aziende italiane. È emerso che i dimissionari, in larga parte compresi fra i 26 e i 35 anni (70% del campione), non ricercavano solo condizioni economiche più favorevoli (47%) o maggiori opportunità di carriera (38%), ma anche un maggior equilibrio tra vita privata e lavorativa (41%). Da segnalare inoltre che il 25% di chi si è licenziato ha indicato come motivazione principale la ricerca di un nuovo senso di vita, mentre il 20% si è dimesso per un clima di lavoro negativo.
Altro fattore interessante è che le grandi dimissioni, in Europa, interessano particolarmente la Gen Z e i millenials in generale. Le motivazioni sono analoghe per le varie fasce d’età: secondo uno studio di YPulse condotto su scala europea, i millenials lasciano il lavoro per una maggior retribuzione (20%), ma anche per un ambiente “not good for my mental health” (19%) e la mancanza di un buon life-work balance (15%).
Perché dimettersi?
Fra il remote working, una maggior autonomia nella gestione del carico lavorativo e la conseguente responsabilizzazione che ne deriva, i cambiamenti indotti dall’emergenza pandemica stanno incrinando qualcosa sul mercato del lavoro. È ancora presto per esprimersi sulle direzioni di questa tendenza, essendo così recente. I numeri però ci informano di un fenomeno in crescita, già problematico in America e che forse costringerà anche noi a interrogarci sulla cultura del posto fisso.
Il trend continuerà anche per il 2022? Non si sa, ma d’altra parte sul fronte del lavoro non possiamo auspicare a un sereno ritorno alla normalità. Come sottolinea Microsoft, le nuove modalità di lavoro are here to stay e gli employers dovranno meditare su questi cambiamenti – sempre secondo l’indagine di Adip, il 75% dei manager italiani non aveva previsto questa ondata di dimissioni.
Che se lo aspettassero o meno, che fosse o non fosse prevedibile, il Big Quit è la conferma di un cambiamento nel mondo lavoro. Un cambiamento che, al di là dei suoi risvolti economici, ha una natura marcatamente culturale: non è un caso che all’epoca delle grandi dimissioni, sugli strascichi di un’emergenza sanitaria globale, si stiano sdoganando riflessioni sulla mental health, il burnout e il life-work balance.
Un fenomeno ancora da comprendere nelle sue reali motivazioni, ma da cui si può già ricavare una minima verità: se l’aumento dell’offerta di lavoro e le dimissioni si inseguono di pari passo, significa che sempre più lavoratori sono insoddisfatti della loro attuale posizione. Quando ne hanno occasione, si dimettono.
Tutto questo ci porta a pensare che i lavoratori vogliano di più che uno stipendio adeguato – o più semplicemente, quando parlano di salute mentale, stress sul lavoro o “un nuovo senso di vita”, che vogliano qualcosa d’altro.
Quantità o qualità? Questa differenza è una questione di cultura.