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Non servivano 55 morti, 146 feriti e 234 famiglie evacuate, con tre ospedali da campo e almeno sessanta ambulanze impegnate nei soccorsi, per ricordare al mondo che la Libia è un territorio in mano alle bande armate e al fanatismo religioso.
Quanto accaduto a Tripoli negli ultimi giorni è soltanto l’ultimo capitolo di una violenta resa dei conti fra le milizie locali che va avanti da anni, trascinandosi dietro sangue e devastazione, soprattutto fra i civili.
L’arresto di Hamza
Nel caso di specie, a far scoccare la scintilla è stato l’arresto di lunedì 14 del comandante Hamza della Brigata 444, da parte della milizia Radaa, per motivi ancora non noti. Nonostante il rilascio quasi immediato dello stesso, la reazione è stata cruenta, dando il via a tre giorni ininterrotti di scontri, descritti come fra i più violenti degli ultimi due anni, ovvero dal momento del cessate il fuoco sancito fra i gruppi della Tripolitania e della Cirenaica.
A poco sono serviti gli appelli a porre fine alle ostilità giunti dalle massime istituzioni libiche, la Camera dei Rappresentanti e l’Alto Consiglio di Stato e dagli organismi internazionali, per bocca del rappresentante della Missioni di Supporto in Libia dell’Onu.
La rivalità tra la Brigata 444 e la milizia Radaa
La rivalità fra le due bande ha radici profonde, ciascuna alle dipendenze di diverse articolazioni del potere interno.
La Brigata 444 è fedele al Ministero della Difesa dell’attuale Governo di Unità nazionale, mentre la milizia Radaa è riconducibile al Ministero dell’Interno.
Decisamente più benvoluta dalla popolazione la prima, per via delle sue condotte quasi professionali, più legata al fondamentalismo religioso la seconda, più volta finita nel mirino di Amnesty International e del Consiglio per i Diritti Umani dell’Onu, per il frequente ricorso alla pratica delle detenzioni arbitrarie.
La posizione dominante delle bande armate nel Paese è andata via via crescendo, anche perché sono gli stessi esponenti politici a servirsene per ricevere protezione e guadagnare prestigio.
Il premier Dbeibach
Non è un mistero che lo stesso premier Dbeibah se ne sia servito per permanere nel proprio mandato, ormai scaduto, che gli era stato affidato dalle Nazioni Unite. Le milizie locali sono ormai diventate parte delle istituzioni e rappresentano veri e propri centri di potere, mettendo le mani su asset economici e non solo, dagli idrocarburi al traffico di essere umani, spartendosi il territorio e controllandolo.
Il fenomeno delle bande armate ha preso piede, dopo la rivoluzione del 2011, che portò al rovesciamento del regime di Gheddafi. Nati come gruppi informali di combattenti per difendere i propri territori dalle avanzata dei fedelissimi del dittatore deposto, le comunità si sono unite o separate, a seconda delle esigenze e degli interessi.
Il generale Haftar
Anche quando nel 2014 la Libia venne divisa in due distretti governativi, Tripolitania e Cirenaica, le milizie locali si sono organizzate ed hanno proliferato, anche per via della mancanza di governi centrali forti. Nell’Est del Paese, è divenuto leader incontrastato il generale Haftar, in grado di intrattenere di relazioni diplomatiche con potenze straniere.
Non servivano i fatti di questa settimana, dunque, per ricordarci che la Libia è una polveriera nel cuore del Mediterraneo, a poche centinaia di chilometri dalle coste italiane, la cui stabilizzazione pare ancora lontana e difficile da immaginare.