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di Salvatore Baldari
Ve lo avevamo promesso il 19 Novembre, quando abbiamo celebrato il millesimo goal di Pelé, provando a descrivere quei suggestivi momenti di 52 anni fa.
Ve lo avevamo promesso, perché è da almeno quarant’anni nel mondo calcistico che un assillo riecheggia negli amanti di questo sport, di tutte le età e di tutti i luoghi:
“Maradona o Pelé? Chi è il migliore di sempre?”. Se dovessimo contare soltanto i goal segnati non ci sarebbe storia. L’idolo brasiliano avrebbe largamente i favori della contesa. Ma, fortunatamente, non bastano numeri presi a freddo per sbrogliare questo dilemma che mai nel tempo verrà comunque sbrogliato.
Per capire cosa è stato Maradona, basterebbe riprendere un episodio di qualche mese fa.
Boca Juniors, il primo miracolo di Maradona
È il 15 Marzo 2021, si gioca il Superclasico, la partita delle partite in Argentina, River Plate contro Boca Juniors. Si gioca in uno scenario surreale. Un evento a cui di solito assistono ottantamila caldissimi spettatori è invece riservato a pochi dirigenti e personale dei club, sulle tribune. Si gioca a porte chiuse, a causa delle restrizioni per il Covid.
Il risultato è fermo sull’1-1, quando allo scadere della partita, un’azione pericolosa del River sembra indirizzata a finire in rete. La palla viene deviata accidentalmente da un difensore del Boca, supera il portiere e rimbalza a pochi centimetri dalla linea di rete, prima di prendere una traiettoria incredibile, che la fa allontanare dalla porta. (https://www.youtube.com/watch?v=J4CV2D9hbjw)
In tutta la nazione si grida al miracolo. Il primo miracolo di Maradona che dall’alto ha soffiato su quel pallone, evitando al suo Boca la sconfitta. La squadra che lo proiettato nel grande calcio, dopo l’esperienza iniziale nell’Argentinos Junior.
C’è un filo facilmente percepibile che lega Maradona al sovrannaturale, al misticismo. Da sempre. E in tutti i luoghi in cui ha giocato.
Maradona a Napoli
È sufficiente farsi un giro nei quartieri spagnoli di Napoli, dove ancora oggi sembra di essere nella seconda metà degli anni Ottanta, quando la squadra partenopea vinse due scudetti, una Coppa Uefa e un Supercoppa Italiana.
Nella città partenopea, arrivò dopo le stagioni trascorse a Barcellona, il suo impatto nel calcio europeo. Fra Diego e la città di Maradona fu amore a prima vista.
Il giorno della sua presentazione, sessantamila persone pagarono un prezzo simbolico di mille lire, per essere presenti sugli spalti del San Paolo e vederlo palleggiare a centrocampo, con un pantalone azzurro, una T-shirt bianca e una sciarpa al collo, prima di scagliare il pallone verso la tribuna.
La festa era appena iniziata. Maradona fu accolto in città come un Messia, un eroe atteso da decenni per riscattare la capitale del Sud Italia dai disagi economici e sociali di quegli anni. I ritratti di Maradona sono custoditi nelle edicole votive fra i vicoli della città, alternati a quelle dedicate alla Madonna.
Murales di Diego si rincorrono, da un palazzo all’altro. Le botteghe vendono le magliette col suo numero 10, insieme a quelle dei calciatori di oggi. Ghirlande e bandierine sono appese fra un balcone l’altro.
È come se da quella primavera del 1987 la festa non sia mai finita.
Il tempo è andato avanti ovunque, tranne che fra i vicoli magici. A Napoli, Maradona è un culto per chi in quegli anni lo vide giocare e anche per chi non lo ha mai visto in campo. Si respira nell’aria.
La veglia fuori l’ex Stadio S.Paolo, oggi stadio Diego Armando Maradona, di migliaia di tifosi, la notte della sua morte, in pieno lockdown, forse non basta a raccontare cosa è ancora oggi Maradona per Napoli.
I mondiali e la mano de Dios
Una figura totalizzante che ai Mondiali di Italia ’90 portò i tifosi napoletani a fare il tifo per l’Argentina, nella semifinale giocata beffardamente proprio a Napoli e che gli azzurri di mister Vicini e dei vari Baggio, Schillaci e Maldini persero.
Se ne parlò tanto di quell’episodio. L’Argentina di Diego non vinse quel mondiale. Ci riuscì, tuttavia, quattro anni prima, trascinata proprio dal suo campione che in quel torneo visse la sua definitiva consacrazione.
Fu il Mondiale della doppietta all’Inghilterra in semifinale, segnando prima il goal più bello di tutti i tempi, quello della trionfale corsa palla a piede dalla linea di centrocampo sino alla linea di porta, dribblando in successione sei avversari compreso il portiere, accompagnato dalla scalpitante telecronaca di Victor Hugo Morales, consegnata alle epoche postume con le fattezze di un canto popolare, col culmine nel suo ‹‹tà,tà,tà›› che scandì l’ultimo dribbling, prima dell’urlo commosso.
E dopo qualche minuto arrivò il goal più famoso di sempre, quello della “mano de Dìos”, un tocco di mano per beffare il portiere; oggi con il Var si sarebbe invalidato uno dei momenti più raccontati della storia del calcio.
Fu un trionfo nazionale perché Maradona diventò simbolo di riscatto di un popolo costretto a capitolare appena quattro anni prima, proprio per mano dei britannici, nella guerra delle isole Falkland. Diego come un condottiero.
Maradona aveva realizzato il suo sogno. Quello che, quando era ancora un bambino magrolino e col viso incorniciato da capelli ricci, rivelò in un reportage girato in un campetto di periferia.
‹‹Mis sueños son dos. Mi primer sueño es jugar en el Mundial, y el segundo es salir campeón.››
Non c’è bisogno di aggiungere traduzione, per comprendere che aveva le idee chiare sin dall’inizio. E che realizzò i suoi sogni, oltre a quello di altri milioni di persone.
Quel viso innocente di bambino è l’immagine che più istintivamente ci viene in mente quando pensiamo a lui. Il viso di bambino che lo ha accompagnato per gran parte della sua carriera e della sua vita. Il viso euforico e impertinente dei festeggiamenti nello spogliatoio del Napoli, mentre il compianto Giampiero Galeazzi lo intervistava, prima di prendersi una secchiata d’acqua addosso e saltare insieme al resto della squadra.
Un viso che nessuno riesce a capacitarsi come abbia fatto a diventare quello sfatto e squadrato del Mondiale Usa ’94, il suo ritorno in una competizione internazionale dopo la squalifica per positività alla cocaina del 1991.
E, proprio in quello stesso Mondiale, un altro controllo antidoping riscontrò una nuova positività di Diego, questo volta per efedrina. Un’altra squalifica.
Tutti i suoi appassionati si sono chiesti chi fosse il vero Maradona. Da quanto tempo e per quanto tempo, il Maradona-bambino avesse convissuto e combattuto contro il Maradona della cocaina.
Per tutti Maradona resta quello di Bayern Monaco-Napoli del 1989, quello del riscaldamento a ritmo di Life is Life degli Opus, con la palla che per lunghi minuti volteggiò fra la sua fronte, i suoi piedi, le sue spalle, le sue cosce senza mai cadere.
Per tutti, Maradona resta quello caparbio e determinato del recupero a tempi di record dal terribile infortunio alla caviglia, patito ai tempi di Barcellona, per un’entrata ai limiti della criminalità del difensore Goikoetxea.
Le ultime esperienze della sua carriera, quelle dal Siviglia al ritorno in patria, non le ricorda nessuno. Così come nessuno ricorda la sua folkloristica carriera da allenatore, che a parte la parentesi con la nazionale, lo ha portato in giro per il mondo in posti sconosciuti e con nomi impronunciabili.
Quello è il Maradona ingrassato, a tratti goffo e spesso con lo sguardo smarrito nel vuoto, passato più come un meme ridicolo che come un simbolo.
Ma a nessuno interessa tutto questo.
Perché di Maradona ci basta e ci avanza quello che è stato sino agli anni di Napoli.
Perché di Maradona ci basta quel ricordo, per continuare a coltivare il suo culto, come il totem di un rito pagano senza confini nel mondo.