
Zohran Mamdani, il nuovo volto di New York
5 Novembre 2025Nell’inferno delle carceri iraniane, dove anche le cure mediche sono negate.
Non solo pena di morte.
La Repubblica islamica dell’Iran, oltre all’uso sistematico della pena di morte come strumento per silenziare il popolo (in questo 2025 si son superate le 1300 esecuzioni), attua molti altri modi per eliminare i cittadini dissidenti o che ritiene pericolosi per la sua fragile stabilità. Le autorità iraniane infatti applicano all’interno delle carceri una costante repressione e violazione dei più basilari diritti umani, tra cui il diritto alla cura. Senza esagerare possiamo dire che nelle prigioni iraniane ricevere un’assistenza medica adeguata è pressoché impossibile.
Se a livello globale le uccisioni tramite esecuzione capitale non fanno rumore, figuriamoci i decessi all’interno delle carceri. Questi decessi sono spesso classificati dalle autorità iraniane come morti naturali, accidentali o suicidi, negando ripetutamente la verità; ossia che quelle morti sono state procurate da una scarsa o nulla assistenza medica, oltre che da condizioni esistenziali precarie e disumane intervallate da continue torture fisiche e psicologiche.
Soudeh Asadi, Jamila Azizi e Somayeh Rashidi, le tre detenute morte a causa delle cure negate
Soudeh Asadi, Jamila Azizi e Somayeh Rashidi sono tre detenute morte nella famigerata prigione di Qarchak a Varamin nel Settembre 2025 proprio a causa della mancanza di cure mediche. A Gennaio un’altra detenuta, Farzaneh Bijanipour è morta nella stessa prigione.
Jamileh Azizi, detenuta nel carcere di Qarchak per reati finanziari, dopo aver accusato sintomi di un infarto viene trasferita nell’infermeria del carcere. Nonostante i chiari segnali di instabilità fisica, terminato l’esame i medici dell’infermeria le comunicano che va tutto bene, viene così rimandata nella sua sezione. Azizi morirà poco dopo. Nel constatare che la sua situazione peggiorava, le altre detenute hanno cercato di attirare l’attenzione delle guardie: piangendo, urlando, protestando… ma nessuno è venuto ad aiutarla. «È morta davanti ai nostri occhi. I suoi occhi sono rimasti aperti mentre la portavano fuori dal reparto» ha riferito una prigioniera a Iran Human Rights.
Il 16 Settembre 2025, Soudabeh Asadi, un’altra prigioniera di Qarchak, muore a causa della negazione delle cure mediche e del mancato trasferimento in tempo nelle strutture ospedaliere.
Il 25 Settembre è giunta invece la notizia del decesso di Somayeh Rashidi, una prigioniera politica arrestata il 25 Aprile di quest’anno. Rinchiusa nel reparto femminile del carcere di Evin, a causa dell’attacco israeliano viene trasferita nel carcere femminile di Qarchak.
Il 16 Settembre la salute di Rashidi peggiora bruscamente tanto da procurarle un grave attacco epilettico. Già in coma viene trasferita all’ospedale Mofatteh, a Teheran. Una fonte vicina alla sua famiglia ha riferito a Hrana che: «Somayeh si lamentava da tempo dei suoi problemi di salute, ma i funzionari della prigione, nonostante le sue ripetute visite in infermeria, si sono rifiutati di prendere sul serio le sue condizioni. In alcune occasioni l’hanno persino accusata di fingere di essere malata. Le sono stati somministrati solo farmaci psichiatrici e sedativi che hanno ulteriormente peggiorato la sua salute. Secondo i medici dell’ospedale, il ritardo del suo trasferimento è stata la causa principale del suo deterioramento irreversibile».
Un’altra è invece la versione della magistratura iraniana che imputa il decesso alla stessa Rashidi, rea di essere dipendente da droghe sintetiche e di soffrire di disturbi psichiatrici e convulsioni. La magistratura ha inoltre dichiarato che durante la sua detenzione la prigioniera ha ricevuto tutte le visite mediche necessarie. Tuttavia le informazioni ottenute da Hrana indicano «che le sue condizioni sono costantemente peggiorate durante la detenzione e che le cure mediche fornite sono state inadeguate e, a volte, al di sotto degli standard».
Per quanto queste morti possano essere spacciate dalle autorità come incidenti o decessi naturali, la loro definizione più corretta è: omicidi di Stato.
«Uno dei problemi più gravi della prigione è la scarsa assistenza medica. L’infermeria non ha nemmeno un misuratore di pressione sanguigna. Le bombole di ossigeno sono spesso vuote, la macchina ECG è rotta e non è disponibile alcun defibrillatore. I trasferimenti in ospedale devono affrontare procedure complicate» ha riferito a Hrana un ex membro dello staff di Qarchak, che ha aggiunto: «Le diagnosi mediche sono spesso errate e i prigionieri sono regolarmente accusati di fingere di essere malati».
La prigione di Qarchak: dove sono detenuti anche i bambini
Capannoni senza finestre ecco come si presenta la prigione di Qarchak situata vicino alla città di Varamin, in un’area pressoché abbandonata a pochi chilometri a sud di Teheran. Nata per essere un allevamento di pollame, successivamente la struttura è stata convertita in un centro di riabilitazione maschile, per poi, nel 2010, essere trasformata in un carcere femminile.
Questa prigione, che può ospitare al massimo 100 persone, spesso supera le 150 detenute, a volte arrivando perfino a 600, impedendo così alle donne di avere uno spazio dove dormire. Sovraffollamento che è peggiorato dopo l’attacco di Israele al carcere di Evin, quando molte prigioniere politiche di Evin sono state trasferite in massa nella prigione di Qarchak.
In questi luoghi degradati e disumani sono detenuti anche i bambini, bambini che sono costretti a vivere lì con le loro madri fino all’età di due anni. Qarchak è stata definita come tra le prigioni più violente dell’Iran, con situazioni illegali, pericolose e inumane.
Nel report Qarchak prison report: hell for women and children in Iran, di Iran Human Rights del Dicembre 2024, si legge: «Secondo i racconti dei prigionieri la struttura non solo è invasa da parassiti, ma anche da ratti, salamandre, lucertole, insetti acquatici e persino tarantole velenose. L’acqua del carcere è imbevibile e, se non bollita e filtrata, può causare diverse malattie gastrointestinali e renali. I prigionieri politici che sono stati temporaneamente esiliati in questa prigione riferiscono che l’acqua non è adatta nemmeno per fare la doccia».
A preoccupare e allarmare sono anche le condizioni critiche dei bambini presenti. Bambini che, si legge nel report, sopportano le dura sopravvivenza della prigione. Questi bambini sono costretti a vedere le loro madri sofferenti a causa degli abusi che subiscono e a vivere in scomparti angusti e poco arieggiati, a mangiare cibo scadente e a non usufruire delle cure necessarie. I minori, dunque, si trovano a sopravvivere molto precariamente esattamente come gli adulti. Qarchak è anche nota per essere una prigione in cui le autorità carcerarie compiono ripetuti abusi fisici, psicologici e sessuali verso le detenute.
In questo carcere nemmeno i famigliari delle prigioniere ricevono un trattamento migliore. A proposito Iran Human Rights Monitor ha denunciato che i famigliari subiscono continue minacce, restrizioni, umiliazioni e arresti arbitrari. «Quando si verificano visite, le famiglie, in particolare donne e ragazze, sono sottoposte a perquisizioni corporali degradanti. Le autorità carcerarie spesso impediscono la consegna di articoli essenziali come medicine, indumenti caldi o beni di prima necessità. Le famiglie che denunciano le condizioni delle prigioniere o si attivano sui social media subiscono minacce e arresti, e pure i bambini e gli adolescenti non sono risparmiati da queste pressioni».
Il carcere di Ghezel Hesar, tra lavoro forzato e torture silenziose
Una “fabbrica della morte” con 17.000 detenuti in catene è stata definita la prigione di Ghezel Hesar vicino a Karaj. Un altro centro detentivo in cui i prigionieri sono costretti a subire condizioni inumane e di sovraffollamento, nonché a lavorare forzatamente.
La prigione di Ghezel Hesar è una delle più grandi e affollate dell’Iran e ospita decine di migliaia di detenuti. «Migliaia di essi» riporta Iran Human Rights Monitor «sono costretti a lavorare quotidianamente nelle officine industriali gestite sotto il controllo dell’apparato di sicurezza del regime, in particolare dell’IRGC, attraverso la Fondazione cooperativa dei prigionieri. Presentato ufficialmente come “riabilitazione”, il reparto di lavoro funziona come un campo di lavoro forzato de facto».
La condizione dei prigionieri costretti a lavorare può essere definita atroce. Come possono essere definiti infatti dei lavoratori che per mantenere gli impossibili e disumani ritmi lavorativi ricevono ogni mattina una dose di metadone?
Da quanto appena descritto è inevitabile che si muoia di lavoro. Bahman Karamlou, un detenuto di 50 anni, è morto dopo aver sopportato anni di lavori forzati in condizioni difficili. Karamlou aveva nascosto la sua malattia per timore di essere allontanato dal reparto lavoro e perdere così l’accesso ai servizi di base, tra cui un cibo leggermente migliore o un accesso limitato al telefono. La sua morte è l’ennesima prova che il regime non ha alcuna considerazione per le vite umane, e tratta (per usare le parole di IHRM) “la vita dei prigionieri come sacrificabile”.
Oltre allo sfruttamento, all’interno della prigione di Ghezel Hesar le autorità carcerarie esercitano torture fisiche e psicologiche. Una di queste viene denominata “tortura silenziosa” e concerne nell’interruzione di acqua. All’inizio di Settembre nell’unità 2 di Ghezel Hesar l’approvvigionamento idrico è stato interrotto creando condizioni gravemente critiche per centinaia di detenuti e mettendo in grave pericolo la loro salute. Negare la possibilità ai prigionieri di lavarsi le mani e i piatti su cui mangiano può produrre, in un ambiente così sovraffollato, il diffondersi di malattie infettive, cutanee e gastrointestinali.
«Il taglio dell’acqua non è solo un semplice problema tecnico o amministrativo» riporta IHRM «i prigionieri lo percepiscono come un “metodo di soppressione” e una “tortura silenziosa”. Dato che l’accesso all’acqua è uno dei diritti umani basilari, privare i prigionieri di questo diritto fondamentale costituisce una forma di tortura sistematica, volta a intensificare la pressione psicologica e fisica su di loro. Questa deliberata privazione dei servizi essenziali sottolinea il palese disprezzo delle autorità iraniane per il benessere e i diritti fondamentali di coloro che sono sotto la loro custodia».
Foto di copertina di Samuel Jeronimo via Unsplash






