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di Lorenza Cianci
Per comprendere quanto ancora la storia del Rwanda sia inestricabilmente legata ai fatti del genocidio del 1994, è utile ripercorrere la vicenda umana e giudiziaria di un oppositore politico dell’attuale governo rwandese, Paul Rusesabagina. Passato da eroe a terrorista, nel giro di pochissime ore.
«Sei al sicuro?», un messaggio di tua moglie. Rispondi subito, in fretta: «Sto bene».
Sei all’aeroporto internazionale di Dubai, attraversi a gran passo il terminal 3, questa sera è il 27 agosto del 2020. Sei partito da Chicago 14 ore fa. Quando rivedrai tua moglie non sarai più l’uomo che adesso le scrive in fretta un sms, dissimulando di stare bene, di essere al sicuro.
Fai il check-in all’Hybis Style Hotel Airport. Una doccia calda, un sonnellino di tre ore e poi, tutto di filato, riparti verso lo Stato del Burundi, con un volo privato della compagnia aerea GainJet. Appena comodo in aereo, noleggiato per l’occasione, brindi con un calice di Champagne con un tuo amico, nonché, tuo accompagnatore.
Ti addormenti, per cinque, lunghe, ore. Ti scuotono, dicendoti: stiamo atterrando.
Apri gli occhi e sei convinto di essere all’aeroporto della più notevole città dello stato del Burundi, Bujumbura. Il tuo amico accompagnatore si chiama Constantin Niyomwungere, è un pastore evangelico che regge sotto il suo bastone 12 chiese in tutto il mondo, dal Belgio al Burundi. Il New York Times scrive che, a Bujumbura, di fronte alle congregazioni di Niyomwungere, avresti parlato di come, durante i tragici fatti del genocidio rwandese del 1994, avevi salvato la vita a 1268 persone, tra tutsi e hutu moderati. Di come avevi dato loro rifugio nell’Hotel Des Milles Collines, di cui eri, al tempo, direttore. Infine, di come, grazie anche al film dedicato alla tua storia dall’iconico nome hollywoodiano di “Hotel Rwanda”, eri diventato, tu, un uomo ordinario, un “icona minore nella comunità globale dei diritti umani”. Una medaglia, conferita nel 2005 da George W. Bush, ti consacra: la Presidential Medal of Freedom è uno dei riconoscimenti più prestigiosi nell’ambito dei diritti civili negli States.
Ma, quel discorso, non lo pronuncerai mai. Quella notte, sul cartello sul terminal, c’è scritto: AEROPORTO INTERNAZIONALE DI KIGALI, RWANDA. Non sei atterrato in Burundi. Il tuo amico e accompagnatore, in realtà, non è tuo amico. Senza saperlo, sei a Kigali, nella capitale del Rwanda. Il paese dove sei nato e cresciuto. Verrai atterrato sull’asfalto e di te non si avranno notizie per 48 ore. Il mondo saprà che ti hanno arrestato 48 ore dopo, attraverso un social network, Twitter. È un messaggio dell’RBI a dire dove sei, il corrispettivo dell’FBI americano: «RIB informa l’opinione pubblica che, attraverso la cooperazione internazionale, Paul Rusesabagina è stato arrestato ed è in custodia del RIB». Ma tu, in quelle 48 ore precedenti, sei scomparso, forzatamente sparito. Un anno e un mese dopo circa, il 20 settembre 2021, sarai condannato in via definitiva a 25 anni di carcere con nove capi d’imputazione: tra tutti, l’accusa di terrorismo e reclutamento di bambini-soldato.
Ti chiami Paul Rusesabagina e, da icona dei diritti umani, sei diventato, con una sentenza dell’Alta Corte dei Crimini Internazionali, un terrorista.
Le parole che Rusesabagina non ha mai pronunciato
Il discorso che Paul Rusesabagina avrebbe dovuto pronunciare in Burundi è stato ricostruito dal New York Times sulla base della sfilza di interventi pubblici precedenti dell’ex albergatore rwandese, a partire dal 2005. E, poi, dalle dichiarazioni rilasciate nell’intervista esclusiva per lo stesso giornale dall’uomo, successive ai fatti di quella notte, in carcere. Infine, dalle chiare affermazioni di Kitty Kurth, consulente dell’ex albergatore e portavoce della Hotel Rwanda Rusesabagina Foundation un ente benefico voluto fortemente da Rusesabagina, che dà sostegno concreto alle vedove e agli orfani del genocidio rwandese, e non solo. A quanto pare, ammette la portavoce, dopo il “boom mediatico” seguito al grande successo hollywoodiano, Rusesabagina stava ricevendo sempre meno inviti, e la sua influenza era molto calata, in particolare dopo la pandemia e dopo una grave malattia oncologica che lo aveva fortemente provato nel fisico.
Ecco, quindi, la decisione di approfittare dell’invito del pastore evangelista: «aveva quattro figli, due appena usciti dal college, non aveva un lavoro normale, aveva appena avuto il cancro, gli impegni erano pochi e lontani tra loro», dice Kurth, in estrema sintesi, al quotidiano americano. Eppure, Rusesabagina, al sicuro, nello stato del Burundi, non si sentiva. Ancora Kitty Kurth ammette che l’uomo aveva chiesto di non informare la moglie sulla sua destinazione finale, quel giorno, per non metterle apprensione. L’intera famiglia viveva a Sant’Antonio, nel Texas, da quando, su Rusesabagina, pendeva un mandato di cattura internazionale. Oltre alla Green card americana, l’uomo era cittadino belga.
I rapporti con il regime rwandese di Paul Kagame
Dalla prima proiezione in sala di “Hotel Rwanda”, nel 2004, sembra passata un’eternità. La sera della “prima”, il presidente della repubblica, ex leader del Fronte Patriottico Rwandese (FPR), Paul Kagame, era seduto fianco a fianco al regista Terry George. Si dice si sia complimentato, grato Don Cheadle, l’attore protagonista, per aver portato alla luce del grande pubblico una memoria troppo a lungo sopita. Anche Rusesabagina, in quegli anni, stima fortemente Kagame: egli aveva contribuito a liberare il paese, mettendo fine al genocidio. Ma, negli anni successivi alla consacrazione hollywoodiana, i rapporti tra Paul Rusesabagina e l’ex leader del FPR si sono fatti sempre più critici. L’ex albergatore rwandese aveva denunciato gli aspri metodi extragiudiziali del presidente perpetrati ai danni di molti avversari politici. Sarà un libro scritto di suo pugno, una biografia della sua vita, a rendere definitivo l’abisso, politico e umano, tra i due.
An Ordinary man
Il titolo del libro, che ha fatto il giro del mondo, annuncia la storia di un albergatore inconsapevole del suo destino: an ordinary man, un uomo normale. Il quotidiano tedesco Der Spiegel, nella sua inchiesta sui rapporti tra Rusesabagina e Kagame, spiega l’impatto che questa pubblicazione deve avere avuto sull’ex FPR: «Se non lo era già stato, il libro lo rendeva definitivamente un nemico dello Stato. Kagame disse con rabbia che il Ruanda non aveva bisogno di “eroi fabbricati… fatti in Europa o in America”». Il quotidiano tedesco dichiara, inoltre, che «l’ex primo ministro ruandese Bernard Makuza, un lealista di Kagame che si è nascosto anche nell’Hotel des Milles Collines nel 1994, ha anche affermato a DER SPIEGEL che Rusesabagina non ha salvato i tutsi, ma si limitò a spremere loro del denaro». Da questa testimonianza si evince chiaramente come vi sia un “filone narrativo” differente da quello dell’eroe giusto che salvò gratuitamente 1268 persone dandogli asilo nel suo albergo per ben 11 settimane.
Il contatto con i rwandesi in esilio
L’opposizione al governo Kagame si fa decisiva, per Rusesabagina, anche alla luce del confronto con i ribelli in esilio fuori dal Rwanda. Sempre nel 2005, fonda il Partito della Democrazia in Rwanda (PDR), con base principalmente negli Stati Uniti e in Belgio. Questo gruppo fa parte di un gruppo più ampio, il Movimento Rwandese per il Cambiamento Democratico (MRCD). Da una costola del PDR, poi, si è costituito un braccio armato, il Fronte di Liberazione Nazionale (FNL). Che ha rivendicato attacchi terroristici su civili in diverse occasioni: uno, in particolare, messo in atto su un autobus, a Nyungue, nel Burundi. Rusesabagina ha dichiarato, tramite i suoi legali: «abbiamo formato l’FLN come braccio armato, non come gruppo terroristico. L’obiettivo era quello di attirare l’attenzione del governo sulla condizione dei rifugiati. Non nego che l’FLN abbia commesso crimini ma il mio ruolo era di diplomazia». Egli si dice estraneo ai fatti criminosi compiuti dal gruppo.
48 ore di sparizione forzata
Di quelle 48 ore di sparizione forzata precedenti alla detenzione e alla condanna definitiva, più di un anno dopo, sappiamo poco. Eppure, solo cinque anni fa, in occasione di una presentazione per il CAT, il Comitato Anti-tortura delle Nazioni Unite, era stato il governo del presidente di Paul Kagame a dire che «non c’è detenzione non ufficiale in Ruanda». Deprose Muchena, direttore di Amnesty International per l’Africa orientale e meridionale, ha scritto in un comunicato ufficiale che «le autorità devono chiarire le circostanze del suo arresto, ed esattamente ciò che è accaduto tra giovedì 27 agosto, quando ha parlato con la sua famiglia dopo il suo arrivo a Dubai, e lunedì 31 agosto, quando è stato fatto sfilare davanti ai media a Kigali. Supponendo che fosse in detenzione durante questo periodo e che le autorità ruandesi abbiano nascosto informazioni su dove si trovasse, ciò equivale a una sparizione forzata».
Conclusioni
La vicenda di Paul Rusesabagina ci fa comprendere come difficile sia districarsi in una matassa di forze opposte che spingono tutte verso un centro. Difficile raccogliere i pezzi di un passato, se il passato è la realtà, unica reale, del genocidio. Inutile cercare, catarticamente, di redimersi, mettendo in scena vite di eroi normali, per un pubblico che, forse, si sarà chiesto tante volte perché l’Occidente del progresso e della pace sia stato, solo, per molto tempo, uno spettatore. Dall’altra parte rimane il nocciolo duro della questione della libertà di espressione e, conseguentemente, delle sparizioni forzate e degli abusi in uno Stato come il Rwanda che non ha avuto ancora possibilità di sperimentare il futuro dopo Paul Kagame. Noi, per il momento, non dobbiamo smettere di cercare il bandolo di questi fatti.