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16 Luglio 2022Peppino Impastato, Casa Felicia resta al Comune di Cinisi
Il nostro viaggio si conclude oggi con una bella notizia: dopo il ricorso, la stalla che fu di Badalamenti è ancora del Comune (e dell’associazione). Ha rischiato di tornare agli eredi del boss
di Claudio Tranchino
Cinisi – Sono più o meno le 18.30 quando chiudo la lampo dello zaino nero con all’interno penna, registratore, taccuino nero e una bottiglia d’acqua ghiacciata. L’umidità, intrappolata come un leone in gabbia nei vicoli di Palermo, non dà tregua. Le chiazze di sudore sulla camicia sono ormai compagne di viaggio non paganti. Entro in auto – una Punto decrepita portatrice di ansie costanti – inserisco la meta su Google Maps. Parto. Dovrei arrivare a destinazione nel giro di mezz’ora, distanza sui 33 km. Finalmente, dopo venti minuti di traffico, riesco ad imboccare l’autostrada. E nel percorso restante, mi ritrovo a pensare di star calpestando metri che raccontano pezzi nefasti della storia italiana. Prima passo da Capaci, lì dove gli obelischi color ruggine eretti in onore di Falcone e tutti coloro che sono morti nell’attentato del 23 maggio 1992, vogliono essere più forti dell’evento che ha reso famigerato quel viadotto. Poi Montagna Longa, dove il 5 maggio del 1972 un aereo dell’Alitalia vi si schiantò provocando la morte di tutti i presenti a bordo. Ancora: Punta Raisi, ai piedi della quale giace il più che discusso aeroporto – poi, con una certa ironia della sorte intitolato proprio ai due giudici assassinati – foriero di espropri di terre ai danni dei contadini, collusioni opprimenti della mafia degli anni ’60 e ’70. Ed ecco l’ultimo angolo di quello che appare come un triangolo letale: Cinisi. È lì che sono diretto. Ancora pochi metri e varcherò la soglia di casa Impastato. Anzi, di Casa Memoria Felicia (la madre) e Peppino Impastato. Ad attendermi c’è Giovanni, il fratello del militante di sinistra e giornalista ucciso per mano di Cosa Nostra nel 1978. Gli stringo la mano, mi mostra l’abitazione dove sono entrambi cresciuti con i genitori e che oggi ricorda mamma e figlio, lo spirito antimafia che hanno incarnato, attraverso un’associazione attiva sul territorio con scopo educativo e culturale soprattutto per i giovani. Si, proprio quella casa a 100 passi dall’allora “Tana” di “don Tano” Badalamenti. E questo è un punto di partenza dovuto. Una stalla nei pressi dello stadio, appartenuta all’ex padrino di Cinisi, confiscata, restaurata per circa 400mila euro e poi affidata dall’attuale sindaco Gianni Palazzolo a Casa Memoria, che l’ha rinominata Casa Felicia, ha rischiato di tornare nelle mani della famiglia Badalamenti – al figlio del boss, Leonardo, che la rivoleva indietro – per un errore burocratico. Se così fosse stato, ben oltre il formalismo giuridico, una frase che nel film di Marco Tullio Giordana il capomafia del piccolo comune siciliano fa piovere sulla testa di Peppino – e per la continuità della lotta, su Giovanni stesso – assumerebbe i contorni sinistri dell’approvazione: “si nuddu miscatu cu nennti”. Ma oggi 14 luglio la Corte si è pronunciata sul ricorso presentato dal Comune mesi fa, e dopo ben quattro rinvii, si è arrivati alla conclusione: applicato l’articolo 46 del Codice antimafia, ovvero la restituzione del “bene per equivalente”. Detto altrimenti: “il bene resterà al Comune di Cinisi e noi ci impegneremo – dicono dall’associazione – come abbiamo fatto finora, a rendere Casa Felicia (rinominato così l’ex casolare di Badalamenti, ndr) un’importante tappa del nostro percorso di memoria e impegno contro mafia e oppressione”. Non resta che aspettare il 22 luglio, giorno in cui avrà luogo l’udienza per la nomina del Consulente Tecnico d’Ufficio, che deve determinare l’importo di questa restituzione. Una notizia fondamentale per tutta la collettività di Cinisi, della Sicilia e dell’Italia, che ha evitato “una sconfitta sotto ogni punto di vista”, le parole di Giovanni. Parole a partire dalle quali si può leggere con un po’ più di ottimismo l’intervista che ci ha rilasciato, tra passato e presente.
Il 9 maggio di 45 anni fa veniva ucciso barbaramente suo fratello. Com’è Cinisi oggi?
Non tutto è rimasto come prima, Cinisi non è più Mafiopoli. Ci sono stati segnali di cambiamento, è mutato il rapporto con le istituzioni, la gente, le scuole. Abbiamo legato con l’associazionismo del paese. Rispetto ai tempi di Peppino abbiamo fatti passi in avanti. Purtroppo, però, non ci siamo ancora. Vedo ancora tanti, troppi ritardi. Quella svolta epocale in cui si è sperato in più di 40 anni, non si è realizzata. E mi dispiace tantissimo.
Cosa manca?
Beh, questa è una realtà difficile, dominata dalla cultura mafiosa. Soprattutto perché qui si è vissuto il conflitto tra mio fratello e l’allora boss Tano Badalamenti. E poi, la mia stessa famiglia: basta pensare a mio zio Cesare Manzella, che negli anni ’60 era il capo della cupola, sposato con una sorella di mio padre, che a sua volta era un mafioso. Peppino ha operato questa grande rottura, storica e culturale, certamente nella società in cui ha vissuto, ma soprattutto all’interno della famiglia.
Tuttavia, prima suo fratello, poi lei con le battaglie che continua a portare avanti, siete la dimostrazione che questo circolo vizioso si può interrompere.
Certo. Se si vuole si può, anche vivendo in un contesto mafioso. Ci sono i collaboratori e i testimoni di giustizia, i pentiti. Tuttavia debbo dire che di rotture profonde, come nel caso di Peppino, che partono dal basso portando con sé un bagaglio culturale, politico e ideologico, utile a sviluppare una coscienza critica contro la mafia, non ne ho viste ancora.
Leghiamo questo discorso all’ attualità politica. Il neosindaco di Palermo Roberto Lagalla, eletto per il centrodestra lo scorso giugno, in campagna elettorale è stato sostenuto apertamente da Salvatore Cuffaro, già Presidente della Regione Sicilia dal 2001 al 2008, condannato in via definitiva a sette anni per favoreggiamento personale verso individui appartenenti a Cosa Nostra e rivelazione di segreto istruttorio. Su di lui, che ha scontato la pena, pende pure l’interdizione dai pubblici uffici. Che messaggio ha lanciato la politica, accettando la “presenza” di Cuffaro?
Beh, un messaggio inquietante da tutti i punti di vista. Poco decoroso. Possiamo definire grave che chi è stato interdetto dai pubblici uffici, scenda in campo per sostenere un candidato, poi eletto. È la dimostrazione che la gente non ha ancora maturità politica. Vive sotto condizionamenti e ricatti. Siamo tornati indietro. Con la precedente gestione, quella di Orlando, non c’è paragone, nonostante tutti gli aspetti negativi. È chiaro che bisognerà vedere cosa farà Lagalla, ma credo dovrà ubbidire agli ordini di chi gli ha permesso di essere eletto.
Ha mai pensato di mollare? E in più le chiedo: in cosa si concretizza questa cultura mafiosa che lei ancora rintraccia?
Si, ho pensato di mollare soprattutto dopo l’assassinio di Borsellino. Molti di noi sono caduti in uno sconforto profondo. Poi ci siamo resi conto, grazie anche alla memoria di mio fratello e mia madre, che bisognava restare in piedi, lottare affinché le cose cambiassero. Sulla cultura mafiosa a Cinisi bisogna essere chiari: la maggioranza della comunità è composta da gente per bene. Per capire il senso dell’espressione cultura mafiosa, bisogna partire da dentro di noi. Ad esempio in alcune circostanze, nelle battaglie che ho portato e porto avanti, ho avuto la sensazione di lottare innanzitutto contro me stesso, contro un modo di pensare, un modo di agire, contro una forma mentis. E anche per la gente in paese è la stessa cosa.
A questo punto le chiedo: lei e suo fratello siete stati accettati da Cinisi fino in fondo?
Peppino, soprattutto nell’ultimo periodo della sua vita, cominciava a raccogliere consensi. Ma no, non è ancora considerato figlio di questo territorio.
Perché riconoscerlo sarebbe come schierarsi contro Badalamenti?
Beh, sì. Qui è stato demolito tutto il tessuto sociale e quei soggetti che avrebbero dovuto impegnarsi contro la mafia, hanno remato contro di noi all’epoca. Scuola, chiesa, amministrazione comunale e la classe politica tutta. Questi ritardi hanno fatto crescere ancora di più quella cultura mafiosa della quale ho parlato prima. Ma il nostro compito è questo: ricostruirlo, quel tessuto.
Nel raggiungere Cinisi, dov’è morto suo fratello, sono passato da Capaci, luogo dell’attentato a Falcone, e poi nei pressi dall’Aeroporto, del quale la costruzione della terza pista, negli anni ’60, fu duramente osteggiata da Peppino. Questa sorta di triangolo è stato un crocevia della storia contemporanea sia italiana che siciliana?
Innanzitutto dico che l’aeroporto è stato voluto da mio zio Cesare Manzella. Quando è avvenuto il passaggio dalla mafia agricola a quella urbana, lui, uomo potente che veniva dagli USA, si è imposto come capomafia. E Manzella l’ha voluto perché qui bisognava avviare il traffico internazionale di eroina. E infatti nel giro di pochi anni, l’aeroporto è diventato il crocevia di questo business. Non dimentichiamo che in questo triangolo di cui lei parla, sono state trovate le raffinerie della droga. Si raffinava la morfina base per trasformarla in eroina, e da Punta Raisi la si smistava in tutto il mondo. La mafia qui era molto forte. A proposito della terza pista, che ha comportato l’esproprio delle terre ai danni dei contadini, per questo finiti sul lastrico, Peppino ha lottato duramente.
Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Giuseppe Impastato. Tre figure accomunate dalla lotta alla mafia. Secondo lei sussistono delle differenze, guardando alle radici di ognuno?
Si, le radici sono totalmente differenti. Non si potrebbe nutrire che grandissimo rispetto per i due giudici, figure istituzionali pagate dallo Stato che sono andate ben oltre il proprio dovere. Questo va ribadito con fermezza. Di contro, Peppino non era un giudice, un poliziotto, un carabiniere – parlando sempre con il dovuto rispetto che si deve a queste figure – non era pagato da nessuno. Era animato da una grande voglia di giustizia e legalità – come pure i Falcone e Borsellino d’altra parte – e soprattutto, era un militante politico dalle mille sfaccettature. Penso al suo impegno ecologista, quasi premonitore, come dimostrano le mostre fotografiche che abbiamo qui. Penso all’enorme bagaglio culturale di marca gramsciana e pasoliniana, alla lotta sociale, all’amore per l’arte, la musica. Senza dimenticare l’aspetto comunicativo: mio fratello è stato ucciso per il suo modo di fare giornalismo. Con la trasmissione radiofonica “Onda pazza”, e tutta Radio Aut, utilizzò un’arma micidiale contro la mafia. L’ironia. I suoi erano capolavori di satira politica. Insomma, personalità così complesse e complete mancano. Senza fare classifiche, mi sento di dire che mio fratello sia molto più conosciuto di Falcone e Borsellino presso le nuove generazioni, così come di Aldo Moro, il cui ritrovamento, quel 9 maggio, oscurò per anni l’assassinio di Peppino.
Un’ultima domanda, un po’ provocatoria. Se Peppino non fosse stato assassinato, lei avrebbe percorso comunque questa strada fatta di impegno e lotta?
L’avrei imboccata di sicuro, ma non in modo così impegnato. Non sarei stato un’attivista a tempo pieno. Sarei dietro il mio banco a lavorare, a servire, con mie idee politiche certo, ma non fino a questo punto. La sua morte mi ha coinvolto a tal punto da suscitare in me questo dovere morale di battermi per la sua memoria. E lo dico chiaramente: io ho ricevuto molto più di quanto ho dato. Non mi sarei mai sognato di incontrare così tante persone, avere tanti riconoscimenti. Per me è stato un ritorno enorme. E mi impegno continuamente per restituire tutto questo alla comunità. La lotta deve essere portata avanti non sull’onda dell’emergenza, sulle morti, ma ogni giorno su prevenzione, programmazione, proposte. Mia madre diceva: “se una storia non si racconta, rischia di sparire”. Ecco perché siamo ancora qui a raccontare ancora e ancora. La mafia ha cambiato vesti, certo. Ma oggi, qui, ci siamo noi, non loro.