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Continua il nostro focus. Le proteste che scuotono il Perù da inizio dicembre non accennano a smorzarsi. Al contrario, la repressione che ricorda pratiche delle dittature militari degli anni ’80 non ha fatto altro che alimentarle.
Se infatti, nella prima fase, le proteste erano concentrate nel Sud del Paese e nelle zone rurali a maggioranza indigena, con il passare delle settimane, hanno raggiunto la capitale Lima. E se ad accendere la miccia delle proteste erano stato i sostenitori di Castillo, che vedevano nella sua destituzione e arresto un atto illegale attuato dall’elité della classe politica peruviana, in un secondo momento, il dissenso ha coinvolto anche il ceto medio, con un ruolo sempre più attivo degli studenti universitari.
Le proteste sono tante: ormai si protesta per tutto
Le stesse richieste promosse dal movimento di protesta sono eterogenee, si va dalla scarcerazione di Castillo alle elezioni anticipate, sino ad una nuova Costituzione. Secondo i manifestanti, la democrazia ha favorito l’accumulo di ricchezza e potere della classe politica, senza benefici per i cittadini comuni. Lo Stato ha violato i diritti civili, ha fallito nel fornire sicurezza alla popolazione e servizi pubblici di qualità, dimostrandosi vulnerabile agli interessi dei gruppi di potere.
Il paradosso di cui ci siamo occupati nel precedente articolo, infatti, racconta di un Paese con un quadro macroeconomico fra i migliori dell’America Latina, a fronte tuttavia di forti diseguaglianze sociali, con un terzo della popolazione sotto la soglia della povertà in situazione di grave insicurezza alimentare, aggravata dalla pandemia e dall’aumento dei prezzi, seguito all’invasione in Ucraina.
Il record dei morti per covid
Secondo le Nazioni Unite il Perù è stato il Paese con l’indice di morti pro-capite per Covid-19 più alto al mondo. In un recente messaggio alla nazione, la presidente Boluarte ha invocato la necessità di affrontare la riforma della Costituzione nella prossima legislatura. Ma i deputati del Congresso hanno nuovamente bocciato l’iniziativa, mettendola all’angolo a forzandone le dimissioni che porterebbero alla prima carica dello Stato l’ex generale dell’esercito Josè Williams. Ma le proteste in Perù vanno inquadrate soprattutto nella dimensione del multilateralismo latinoamericano, che sta vivendo una nuova fase a trazione progressista.
Il rapporto con gli altri Stati sudamericani
L’obiettivo dei nuovi governi di sinistra sudamericani è ridare slancio alla democrazia in tutto il territorio, minata dalle repressioni autoritarie in Nicaragua e Venezuela, dalle elezioni contestate di Honduras e Bolivia e dall’assalto alle sedi istituzionali in Brasile. La crisi in Perù, però, sta mettendo in luce delle divergenze tra la guide di sinistra della regione latinoamericana. Se infatti i governi di Colombia, Messico, Argentina e Bolivia hanno espresso solidarietà verso l’ex presidente Castillo, da Cile e Brasile c’è evidente freddezza. L’assenza di coesione regionale ha generato tensioni tra il Perù e gli Stati schieratisi con Castillo. La Presidente Boluarte non ci ha pensato due volte a richiamare i suoi ambasciatori da Bogotà, Città del Messico, Buenos Aires e La Paz.
La tensione con la Bolivia
E nervosismi concreti si stanno generando verso la Bolivia, il cui ex presidente, Evo Morales è accusato addirittura di incitare le proteste e offrire supporto ai gruppi sovversivi peruviani. Le tensioni diplomatiche tra i due Paesi sono una minaccia evidente per la stabilità regionale, visto il ruolo chiave dell’area andina nell’esportazione di minerali preziosi. Il Perù, infatti, è il secondo produttore mondiale di rame, oltre ad essere il primo fornitore di oro dell’America Latina, e possedere importanti giacimenti di zinco e il 22,6% delle riserve mondiali di argento.