NFT e arte. Cos’è, come funziona, dove può portare
3 Novembre 2021Mala Giustizia, la dolorosa vicenda di Pierdomenico Garrone
4 Novembre 2021Trump. Truth social, free speech e censura
Nemmeno Kennedy ci aveva visto così lungo
di Marco Bellinzona
Davanti ai microfoni del leggio si presentò con tono sicuro. Lo sguardo orgoglioso, puntato verso la telecamera, poi un’occhiata a destra e sinistra nello studio, come a voler coinvolgere tutti i presenti. Fra questi, il suo concorrente: Richard Nixon. Contro la grande performance di Kennedy, il candidato repubblicano invece fece male i suoi conti. Titubante e spazientito dalle telecamere, con 70 milioni di telespettatori sintonizzati, Nixon non colse il potenziale della televisione. Né quella sera, né nei vari dibattiti televisivi che seguirono. Secondo le stime, infatti, ci avrebbe rimesso il 6% dei consensi – abbastanza per perdere le presidenziali di novembre. Ma quella, invece, era la sera del 26 settembre 1960 e a Chicago l’emittente americana CBS aveva consacrato la gloria di John Fitzgerald Kennedy: era appena andato in onda il primo dibattito presidenziale mai trasmesso in televisione.
Da allora, la politica si sarebbe legata per sempre alla televisione. E anche nella transizione dalla tv al social, qualcosa del carisma di Kennedy, del politico star televisiva, si è mantenuto nella figura contemporanea del politico influencer dei social. Ma nemmeno JFK era riuscito a vedere così lontano. Almeno non quanto il suo decimo successore, Donald Trump che, a sessant’anni di distanza, potrebbe aprire una nuova frontiera per la comunicazione politica. Perché se Kennedy ebbe l’intuizione di sfruttare la grande visibilità della televisione, Trump ha avuto invece un’idea più semplice, ma eccezionale: anziché sfruttare un media, crearne uno proprio.
Truth social
JFK aveva cavalcato l’onda della televisione, ma quello del Tycoon vuole essere uno tsunami, viste le premesse da cui nasce Truth Social. Una piattaforma come tante altre, con texture e funzionalità analoghe a Twitter. Tutto regolare, se non fosse che sarà Trump stesso a gestirlo. Così, Truth sarebbe il primo social di proprietà di un ex-presidente – o se vogliamo, in una prospettiva più interessante, del prossimo candidato alle politiche del 2024.
In realtà, da come stanno andando le cose, si può già togliere il condizionale. Il Trump Media Technology Group e Digital World Acquisition Corp, istituiti ad hoc per amministrare la nuova piattaforma, sono attualmente quotati in borsa con un valore stimato di 1,7 miliardi di dollari. Ancor più, la versione beta di Truth è già disponibile in pre-order sull’App Store. Se non fosse che, in realtà, ci sono già dei problemi. Infatti, poco dopo l’annuncio ufficiale, la piattaforma era già stata hackerata da un gruppo legato ad Anonymous. Una notizia che ha svelato i limiti di questo progetto, facendo anche capire quanto fosse ambiziosa la pretesa di creare in così poco tempo un competitor di Twitter. Ma quello che interessa di Truth non è la sua efficacia tecnologica, quanto invece la logica che regge questo esperimento.
Il ban
“Contro la tirannia delle Big Tech” si legge nel feroce comunicato stampa di TMTG, pubblicato il 20 ottobre. Obiettivo polemico ben definito: i social che hanno bannato gli account di Trump dopo i fatti del 6 gennaio di quest’anno. Data storica, ormai, quando un’orda di stravaganti oppositori invase gli uffici presidenziali del Campidoglio. Fu la notte di QAnon, la compagine complottista di estrema destra che in quell’assedio avrebbe conosciuto una fama mondiale. Fu abbastanza per Twitter e Facebook in primis, che presero la drastica decisione di silenziare l’account ufficiale dell’ex-presidente, coi suoi 88 milioni di followers. A catena, seguirono le altre piattaforme. “Due to the risk of further incitement of violence” aveva giustificato Twitter sul suo blog ufficiale.
Il gioco della vittima
È una storia inflazionata quella del leader politico che censura i media, ma è sicuramente più originale l’inverso: un social che silenzia un (ex) presidente. Ma questo gioco, a meno di un anno, si è capovolto a vantaggio di Trump.
In preda all’euforia delle recenti elezioni, i dem avevano celebrato forse con troppa foga il ban delle “Big Tech”. Sottovalutando il fatto che, silenziando l’account ufficiale, Twitter e gli altri social stavano in realtà generando un alibi perfetto per Trump: quello della vittima censurata. E infatti Truth Social si vuole annunciare come legittima difesa, risposta dell’alternative right trumpiana alla censura del suo leader. Tant’è che Truth, in risposta ai “tiranni”, non userà il ban: chiunque potrà scrivere qualsiasi cosa.
Non stupisce, quindi, che “TMTG è stato fondato con la mission di dare voce a chiunque”. Truth rivendica senza mezzi termini di essere una piattaforma per il free speech, contro le coercizioni liberticide del politically correct, al punto di potersi dichiarare aperto, libero e a favore di una conversazione globale e onesta. È scritto a caratteri cubitali nella descrizione del sito ufficiale: “TRUTH Social is America’s “Big Tent” social media platform that encourages an open, free, and honest global conversation without discriminating against political ideology”. E pure contro le limitazioni imposte dal politically correct, non a caso, visto che proprio nello slogan “politically incorrect” QAnon amava identificarsi – lo faceva anche con un logo che recava una svastica al centro.
Truth si propone come piattaforma di free speech contro le “Big Tech”, nemiche della libertà di espressione. È un concetto semplice, ma che fonda tutta l’ideologia politica di Truth, della (alt)right per estensione. Un concetto che il presidente repubblicano aveva già ribadito in un tweet dell’8 gennaio, quando Trump riuscì a eludere il ban tramite @Potus, l’account ufficiale della White House. “Come ho sostenuto a lungo, Twitter ha continuato a bannare il discorso libero. Questa notte [8 gennaio, giorno del ban] Twitter si è coordinato con i Democratici e la sinistra radicale per rimuovere il mio account dalle loro piattaforme, per silenziarmi”.
Le regole del gioco
La narrazione di Trump è lineare: il ban lede la libertà di opinione. Il censore (le Big Tech) che limita il free speech e il perseguitato (alt-right) che, non potendo parlare liberamente, si vede privato di un diritto fondamentale. Da cui l’idea stravagante di lanciare una nuova piattaforma. “Creare un concorrente del consorzio dei media liberal per combattere contro le compagnie Big Tech della Silicon Valley – annuncia il comunicato – che hanno sfruttato il loro potere unilaterale per tacere la voce degli oppositori in America”. Se non fosse che i citati oppositori, in questo senso, possono essere qualcosa di più che moderati repubblicani. Tant’è che se Twitter decise di bloccare l’account di Trump per “incitamento alla violenza”, allora Truth andrebbe a ridare voce (e legittimità) a chi questa violenza vorrebbe sfogare.
Trump è stato silenziato dai vari social per aver violato principi di utenza che prevedono, per esempio, di non divulgare materiale discriminatorio o potenzialmente sovversivo. Creare una propria piattaforma, in questo contesto, significa voler disporre le proprie regole del gioco – regole che, evidentemente, non contempleranno limiti o coercizioni su materiale discriminatorio/sovversivo. E tutto questo si chiamerà Truth, ironicamente, nella convinzione che la verità sia là dove non ci sono censure. Nell’illusione, relativista, che chiunque possa dire il vero – se in Twitter si pubblicano tweets, gli utenti di Truth pubblicheranno truths.
Sorrideva Kennedy in televisione, pur dovendo sempre dosare le proprie battute. Erano gli anni, i suoi, della guerra fredda, di delicatissime diplomazie dove una parola fuori luogo avrebbe detonato una enorme polveriera. Sorriderà invece Trump nel suo social, e forse dal 2024 anche nella sua vecchia scrivania a Washington DC, rilassato e senza questo genere di preoccupazione. Perché qualsiasi parola, in quanto libera, sarà true.