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di Silvia Cegalin
Prima di chiedersi se sia giusto o meno il Green pass all’interno delle Università, infatti sarebbe più opportuno cercare di capire perché, in base ai dati registrati nel 2020 da Eurostat, l’Italia si collochi, con un 29%, al penultimo posto per numero di laureati nella fascia di età compresa tra i 25 e i 34 anni nei Paesi UE, mentre l’ultimo posto è riservato alla Romania. Nella classifica ci superano i Paesi del Nord o la Francia, nazione quest’ultima in cui le rette annuali non ammontano a più di 200 euro, ma anche paesi come la Bulgaria, l’Ungheria o la Grecia, stati che dal punto vista economico e sociale presentano un assetto poco stabile, per questo la performance negativa dell’Italia deve far riflettere.
Ambizioso appare dunque l’obiettivo dell’Unione Europea di voler raggiungere entro il 2030 la media del 45% degli studenti con ciclo di studi universitari completato.
Al 2030 mancano nove anni, ma a fronte delle percentuali emerse dallo studio di Eurostat, si palesa chiaramente che nel nostro sistema universitario c’è qualcosa che non funziona e che, per giungere agli obiettivi proposti da Bruxelles, certi assetti e dinamiche devono essere per forza modificati.
Malgrado ciò, spunta anche un segnale positivo: nell’ultimo anno infatti si è osservata una piccola ripresa delle immatricolazioni, coincidente a un +14 mila matricole rispetto al 2019/20 (fonte MUR), un numero che va comunque innalzato per permettere all’Italia di raggiungere il livello degli altri Paesi europei.
Diritto allo studio: qualche dato
Appurato che l’Italia ha meno laureati rispetto al resto d’Europa (esclusa la Romania), ora bisogna tentare di comprendere quali siano i fattori che potrebbero ostacolare il proseguimento degli studi. Dal rapporto annuale di Almalaurea, fondamentale per analizzare la situazione dei neolaureati, emerge un elemento degno di attenzione e che sicuramente influisce in un’eventuale iscrizione universitaria dei giovani diplomati.
Alla voce Estrazione socio-culturale della famiglia d’origine degli studenti (si veda la pagina 4 del report), ciò che si constata è che il numero dei laureati appare inferiore nei nuclei famigliari economicamente poco agiati o dove i genitori svolgono professioni da dipendenti, mentre i numeri dei laureati salgono nei contesti famigliari benestanti.
La divergenza di reddito inoltre influenza anche il percorso di studio, risulta infatti che chi opta per corsi magistrali a ciclo unico possiede, in prevalenza, una condizione economica favorevole, rispetto a chi è meno abbiente, orientato più verso una laurea triennale. Ovviamente anche in queste stime bisogna considerare le eccezioni, di fatto però chi ha una famiglia stabile economicamente o composta da laureati sembra essere più agevolato nel suo percorso di studi.
Non dimentichiamoci comunque che come sancito nell’art. 34 della Costituzione: «I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso». S’intuisce, di conseguenza, che chi è impossibilitato a pagarsi gli studi e le spese che ne potrebbero conseguire (come possono essere ad esempio quelle di vitto e alloggio) viene, se meritevole, supportato dallo Stato attraverso un sostegno economico.
Per rendere possibile ciò, fondamentali risultano essere le borse di studio, ma è proprio qui che si rintraccia una discrepanza nel nostro sistema universitario. Da quanto emerso dal focus Il Diritto allo Studio Universitario nell’anno accademico 2019-2020, pubblicato dal Ministero dell’Università e della Ricerca l’8 Aprile di quest’anno, pur avendo individuato dei miglioramenti nell’assegnazione delle borse, specialmente nel biennio 2019/2020, che come si può vedere nella Tavola n.3 registra un aumento del 7,5%, che complessivamente nel corso degli ultimi cinque anni è giunto al 58,3%, si sono registrate ugualmente delle ‘anomalie’ in quanto non tutti gli studenti aventi diritto alla borsa ne hanno potuto usufruire.
Osservando la Tavola n.7 si nota che tra le regioni che non arrivano al 100% di copertura figurano il Veneto, la Calabria, la Sicilia ed il Molise e per un soffio anche la Lombardia. Se la ridotta assegnazione di borse potrebbe essere uno di quei fattori che influiscono sul basso numero di laureati, dall’altra non si può pensare che questa sia l’unica ragione per cui solo il 29% degli studenti consegue la laurea.
Se si vuole superare la soglia dei 40% di laureati entro il 2030, non basta premiare soltanto chi è più bravo, ma è necessario iniziare ad intercettare, già nei licei e negli istituti superiori, quegli studenti che appaiono dubbiosi ma che avrebbero le capacità per proseguire gli studi.
Perché, ammettiamolo, sebbene quest’anno vi siano state più immatricolazioni, la percezione generale che molti giovani (e non solo loro) hanno è che nel mondo del lavoro avere il diploma o la laurea non faccia alcuna differenza; opinione che viene smentita dai dati pubblicati dal rapporto di Almalaurea: «Ad un anno dal titolo, il tasso di occupazione, che considera anche quanti risultano impegnati in attività di formazione retribuita, è pari al 69,2% tra i laureati di primo livello e al 68,1% tra quelli di secondo livello».
Percentuali che, è bene precisare, fanno comunque riferimento a contratti non standard (alle dipendenze o a tempo determinato) lontani dunque da una prospettiva di stabilità che, come si può intuire, con l’avvento del covid-19 è mutata, creando un quadro sociale diverso dagli anni precedenti.
Interessante in merito appare anche il tipo di facoltà scelta che, seguendo sempre il report di Almalaurea, segnala una crescita nelle iscrizioni nell’area STEM e sanitaria, a differenza delle immatricolazioni nelle discipline umanistiche, sociali e giuridiche che risultano al di sotto della quota di immatricolati del 2003/04. Andamento che in un certo senso conferma ciò che si è vissuto nel periodo pandemico che ha visto il settore sanitario incrementare i posti di lavoro, mentre i campi artistici e sociali subire una profonda crisi.
Divario territoriale e alloggi studenteschi: le cose da migliorare nelle Università
Se fino adesso abbiamo attribuito lo scarso numero di laureati in Italia principalmente a una gestione delle borse di studio non sempre efficiente, in questa seconda parte analizzerò alcuni degli aspetti che caratterizzano le università pubbliche italiane.
Una tra le problematiche principali delle università italiane è sicuramente data dal forte divario territoriale presente tra Nord e Sud.
Il gap tra Settentrione e Meridione è ormai noto e non è solo circoscrivibile alla questione universitaria. Tuttavia, nel report di Almalaurea si sottolinea quanto questa disuguaglianza produca un fenomeno migratorio che vede un gran numero di giovani del Sud e delle Isole conseguire la laurea in atenei del Centro e del Nord, perché valutati migliori a causa sia della loro posizione favorevole sia perché situati in territori più ricchi. Fattore che, se da una parte aumenta il prestigio di alcune università del Settentrione, dall’altra isola ancora di più quelle del Meridione.
Un altro aspetto decisamente più in ombra è la gestione di rete e servizi dedicata agli studenti, come ad esempio mense e residenze. Se il servizio mense oramai è entrato a far parte di quei servizi considerati essenziali e funzionanti, se si pensa agli alloggi il discorso appare un po’ diverso.
Da quanto riportato nell’analisi sullo student housing del Real Estate Data Hub di Re/Max, l’Italia in questo campo deve ancora costruirsi un’identità solida. I numeri, non a caso, parlano chiaro: «l’Italia conta solamente 64 mila alloggi e posti letto appositamente sviluppati per studenti. Il 66% di questi sono residenze regionali ai sensi del DSU (Diritto allo Studio Universitario); il 22% sono posti letto gestiti da operatori privati, il 7% sono alloggi per studenti privati e pubblici legalmente riconosciuti, mentre il restante 5% sono posti letto gestiti direttamente dalle università».
Cifre che sottolineano la rilevanza delle residenze gestite dal DSU in quanto per i vincitori di borsa è garantita la possibilità per gli studenti fuori sede di soggiornare in una delle residenze universitarie. Se invece lo studente è senza borsa o non riesce ad accedere alle abitazioni gestite dall’università è costretto a gestirsi autonomamente, barcamenandosi in un mondo immobiliare tra privati che, seppur agevolato dal contratto transitorio per studenti o a canone concordato, si presenta talvolta insidioso e non certo economico.
Le prospettive future inerenti questo settore comunque appaiono in evoluzione, basti pensare alla proposta di trasformare entro il 2024 l’ex Villaggio Olimpico di Torino in un centro per alloggi sociali e per studenti.
Se il quadro generale della situazione italiana delle università presenta dei punti che devono essere migliorati, voglio concludere questo excursus nelle università citando una delle nostre istituzioni pubbliche sinonimo di eccellenza in Europa e nel Mondo (si veda la recente classifica stilata da ARWU – Academic Ranking of World University dell’università di Shanghai). Sto ovviamente parlando della Scuola Normale Superiore di Pisa.
Nel territorio italiano infatti è l’unica che offre servizi interni (corsi e lezioni) ed esterni (vitto e alloggio) interamente gratuiti per gli allievi e le allieve che passano la selezione di merito, è certo che rimane difficile eguagliarla, ma questo esempio rende chiaro che anche in Italia si può fare un’istruzione di altissimo livello e in modo pubblico.