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di Lorenza Cianci
È a un lungo post su Facebook di inizio primavera che Mary, un’attrice al primo fiore, affida la sua testimonianza di donna vittima di violenza durante un presunto provino. Quel post buca lo schermo e il cuore di una società umana spesso silente. Ce n’era stato un altro, di post, quest’estate. Che ha fatto prendere coscienza a molte altre donne abusate nella giovinezza e nelle aspirazioni più grandi. Ripercorriamo insieme a lei le tappe dolorose di quest’evento. Il processo di autoconsapevolezza, di denuncia. E l’inizio di una rinascita.
Ciao Mary. Ho pensato che a raccontarti, a raccontare chi sei, debba essere tu.
«Io sono Mary, sono nata e cresciuta a Bologna, ho 26 anni. Mi sono trasferita a Roma, per studiare recitazione. Ho iniziato a frequentare la scuola, che mi ha ovviamente rivoluzionato il mondo: ci tengo a specificare questo, perché devo dire che un pochino, forse mi ha spinto ad aprirmi dove non avrei dovuto. Frequentando questa scuola ho scoperto l’importanza dell’essere aperti nei confronti del prossimo, di fidarsi di chi ti guida, fidarsi dei registi, dei direttori del casting, degli insegnanti. Da quando sono bambina, ho sempre avuto un’indole molto artistica. Io mi sono approcciata quasi subito, ovviamente, alla recitazione, con tutte le recite che potevo fare. Arrivata al liceo, ci ho provato. Però, il liceo, è stato un momento un po’ complesso, per questioni familiari, per questioni scolastiche e perché, ad un certo punto, io inevitabilmente sono finita in giri un po’ sbagliati. Quindi, mi sono, purtroppo, allontanata dalla recitazione. Che, però, mi ha salvato quando mi sono ripresa. Io ho avuto degli anni molto bui, anche dovuti alla tossicodipendenza. E, quando ne sono riuscita ad uscire, una delle cose che mi ha salvato è stato proprio avere un corso di recitazione da frequentare. Ho iniziato con i primi progetti piccolini, nella mia cameretta. Poi mi sono trasferita a Roma, ho iniziato il mio percorso di studi. Ed è stato il momento in cui ho capito che, comunque, per me, recitazione e drammaturgia avevano lo stesso valore. Quindi la mia arte è l’arte della recitazione, è l’arte della scrittura. Quello che faccio al momento è cercare di dedicare tutto il tempo che ho a disposizione alla recitazione, alla scrittura».
Quindi si può dire che tu sia riuscita a trasformare quella che poteva essere una via di salvezza, in certi momenti della vita, in una professione. Si può dire che tu sia una professionista?
«Sì, si può dire che io sia una professionista. Perché, al momento, i lavori che ho fatto sono sempre tramite la scuola, che comunque è una scuola professionalizzante. E non ho mai più fatto nulla di amatoriale. Se faccio, vengo pagata, ho un agente che mi segue, che mi propone. Quindi ho scelto questa carriera. Questo è il mio futuro. Sia per quel che riguarda la recitazione, sia per quel che riguarda la sceneggiatura, ho deciso di farne un mestiere. È il mio mestiere».
Quest’intervista nasce in realtà da un tuo post, in forma di riflessione/sfogo sul fenomeno del “not all men”. Nient’altro che una reazione di una parte dell’uditorio maschile al racconto o documentazione della violenza di genere. Che si può riassumere nella frase: “io non c’entro”. Hai tirato in ballo, in questo frangente, la tua esperienza. Prima di bambina, adolescente, poi donna adulta e, infine, professionista. Mi vorresti riassumere la tua opinione su questo fenomeno?
«Io ho un’opinione molto severa. Si potrebbe riassumere così: nel momento in cui comunque viviamo in una società, in una cultura che condona molto, come si può dire…sprona il maschile ad avere un determinato atteggiamento nei confronti delle donne, è ovvio che la categoria maschile si sente abbastanza privilegiata per dare sfogo a qualsiasi genere di istinto abbia, specie quelli più bassi, quelli più violenti, quelli più aggressivi. Nel momento in cui andiamo a discutere di un concetto culturale, quali quello de “le donne non sono oggetti” ti viene effettivamente tolto un privilegio. Allora, per non rinunciare a questo privilegio, ti nascondi dietro il “io non lo faccio”, quindi: “non è un problema di tutti”, “è solo un problema di alcuni”, “non dobbiamo risolvere il problema a monte, ma dobbiamo risolvere il problema dei singoli individui”»
Il momento culminante del tuo sfogo, impresso in quel post, rimane questo: «a 25 anni, con la scusa di un finto provino, sono stata violentata». Da quell’evento è passato un anno. Mi vorresti raccontare, nella misura in cui vuoi e puoi raccontare?
«Io te lo racconterò nella stessa misura in cui feci un post all’epoca, che poi fece partire il caso. Io, nella fine di agosto 2019, ho incontrato, su un sito di casting, un annuncio che diceva: “per tot produzione si ricercano individui ambosesso, dai 15 ai 30 anni, per un pool di cinque protagonisti per una produzione sul territorio di Firenze, Roma, Milano”. Veniva richiesto di mandare le proprie generalità. Quindi: nome, cognome, data di nascita, recapito telefonico, e un paio di foto. Circa cinque giorni dopo aver mandato questa candidatura via e-mail, ho ricevuto una risposta, telefonicamente. Sono stata contattata da un non ben precisato Alex, che mi invitava a recarmi il tot giorno, alla tot ora. Ho accettato, ho preso l’appuntamento, mi sono salvata il nome con la produzione con cui lui si identificava, che era la XXX, e mi sono recata a questo provino.
Al provino, nel centro congressi…era un centro congressi. Quindi, c’erano delle receptionist e poi c’era un’assistente a questo individuo, che prendeva i nominativi delle persone che entravano e poi, le mandava con questo individuo, che non si era ancora identificato. Io l’ho seguito in una stanza, chiusa comunque, e da lì ha iniziato a farmi alcune domande di rito…di rito, personale. Non, ovviamente, di rito della professione. Perché non ho mai più sentito qualcuno farmi queste domande. Le domande erano molto precise. Ho scoperto, successivamente, in futuro, essere sempre le stesse. Ovvero: che film ti piacciono? Ti identificheresti di più nel ruolo della buona o della cattiva? E, perché, tra tutte le altre, dovrei scegliere te? Io ho dato le mie risposte in maniera quanto più spontanea e naturale possibile. Terminate queste tre domande di rito, lui mi ha fatto una domanda su un tatuaggio che io ho (…). E già lì, avevo percepito un disagio. Io gli ho subito detto che era una storia lunga, per non dire: non te lo voglio dire. Ma lui ha insistito. Ho deciso di aprirmi e di raccontargli, a grandi linee, dove l’avevo preso. E lui ha continuato a rincarare la dose, voleva sapere di più. Io, visto che mi stavo anche un po’ commuovendo, ho deciso di interrompere e gli ho detto: guarda, se vuoi te lo dirò se avremo modo di rincontrarci. Lui ha detto: va bene, io ho tutto quello che mi serve sapere, ti farò sapere, nel caso. Nel caso dovessi contattarti, nel caso dovessi avere un’idea precisa del ruolo da proporti ti manderò una sceneggiatura. Se no, potrei, se non fossi sicuro del ruolo da affidarti, farti fare un provino su una scena tratta da un film premio Oscar degli ultimi vent’anni. E così mi ha liquidata. Io me ne sono andata, con una forte sensazione di disagio».
Ma la chiamata c’è stata, poi.
«Successivamente sono stata ricontattata, a distanza di circa una settimana, dieci giorni. Ho ricevuto una chiamata in cui mi diceva: guarda, io non devo più cercare, perché ho trovato quello che volevo. E sei tu. Io, molto contenta, perché quante volte può succedere nella vita? Mi fa: però, non sono sicuro del ruolo da darti, quindi ti provinerò su questa scena del film premio Oscar degli ultimi vent’anni. E io: va bene, mi manderesti la sceneggiatura? No, preferisco vederti improvvisare. Qui mi era scattato il primo campanello d’allarme. Di conseguenza, ho accettato, ho preso l’appuntamento, ma mi sono andata ad informare. Ho provato a cercare la produzione. Io avevo solo un nome, non avevo neanche un cognome, quindi sono dovuta andare con la produzione. Io mi ero salvata il suo numero con il nome della produzione che era questa XXX ed effettivamente questa XXX esisteva come casa di produzione. Era una piccola casa di produzione che si appoggiava, ad esempio, a case di produzione più grandi. Ho pensato che, essendo una piccola produzione, non ci fosse tutto il rigore delle produzioni più grandi, e mi sono fidata».
Questo errore di “lettura” è stato fatale.
«È stato proprio fatale. Nel mio caso, lo è stato. Mi ha poi ricontattato, addirittura, per passarmi a prendere in macchina. Io sono stata molto ingenua. Perché ho pensato che fosse una persona molto disponibile, non ho capito assolutamente niente. Quindi mi è addirittura venuto a prendere in macchina, sotto casa. Il tot giorno, alla tot ora… che al momento proprio non mi ricordo. Già quando mi è venuto a prendere, ha voluto darmi due baci sulle guance. Io non sono neanche una persona troppo fisica, quindi ho cercato di essere un po’ distaccata. Siamo partiti in macchina e, mentre eravamo in macchina, ho cercato di fargli delle domande: sul film, sulla produzione, sul regista, com’era, come non era. È sempre stato molto vago. Non mi ha mai voluto dare informazioni precise. Io però, ormai, ero in macchina. E mi sono fidata.
Mi ha portato in un appartamento di una zona che io non conoscevo, ho poi scoperto dopo qual era. Ci siamo chiusi dentro. Però, non ha chiuso a chiave e io, di nuovo, ho pensato: se non chiude a chiave, allora posso uscire quando voglio. Quindi non devo avere paura. Però, per sicurezza, ho mandato la mia posizione alla mia coinquilina, perché eravamo rimaste d’accordo che, se fosse successo qualcosa, e non mi avesse sentita dopo un tot di tempo da quando io le avevo mandato il messaggio, avrebbe contattato le autorità. Ero andata un po’ prevenuta. Lui si è allontanato un attimo dalla stanza, è tornato indietro e ha portato questi due canovacci, questi due fogli stampati con questa scena. Io leggo la scena e vedo che, nella scena, sono previsti, tipo, due baci. Non c’erano spalle, non c’erano telecamere, non c’erano registi, non c’era assolutamente niente. Era un appartamento sfitto, con me e lui. Leggo questa scena, leggo queste azioni, gli chiedo se dobbiamo fare anche le azioni e mi risponde di sì. Lo facciamo una prima volta, io ovviamente i baci glieli do, sempre, sulle guance. E mi fa: va bene, rifacciamola. E io: sì, che cosa c’è che non andava? Eh, ma, vedi, questa battuta qua non l’hai letta bene…anche qui … sempre vago. La rifacciamo una seconda volta. Io, sempre, gli do i baci sulle guance. Mi dice che, di nuovo, non va bene. Gli chiedo perché. E fa: ma perché… sempre queste battute un po’ così, e poi il bacio non va bene: deve essere un bacio appassionato. Io gli dico: guarda, io un provino così non l’ho mai fatto, non c’è una spalla, non c’è una telecamera, stiamo improvvisando, io non me la sento. Non faccio a tempo a finire di parlare che lui comincia a urlare e aggredirmi verbalmente, ma proprio forte. Incazzandosi, perché “lui è un professionista, perché lui ha studiato per fare questa scena, perché posso anche non farlo il bacio, ma lui non mi può portare davanti a un regista perché lui non può portarmi davanti a un regista se io non sono disposta a baciarlo, lì, subito…come farò quando sarò davanti a lui, con venti telecamere?”. E io, sul momento, ricordo proprio che i pensieri sono andati alla velocità della luce. E l’unica cosa che ho pensato è: se questo urla, e mi aggredisce così, perché gli ho detto, e basta, che non me la sento di farlo, io non voglio immaginare se mi rifiuto di fare quello che mi chiede, cosa mi può fare. Io, quindi, avendo paura per la mia incolumità, ho fatto quello che mi ha chiesto. Abbiamo iniziato a darci questo bacio, lui ha forzatamente infilato la lingua. Io ho cercato più volte di interrompere questo bacio, ma lui continuava. Ho cercato di allontanarmi, ma lui mi stringeva. Quando, poi, mi ha messo le mani sul culo, io sono riuscita a staccarmi. E, per fortuna, lì, si è fermato tutto. Mi ha chiesto se volevo rifarla un’altra volta. Io gli ho detto di no. Lui mi ha detto: va bene, ho tutto quello che mi serve sapere. E mi ha, quasi forzatamente, portata in macchina fino a una fermata di metro vicina. E quando siamo scesi, ovviamente non mi ha più dato i baci sulle guance, mi ha detto che mi avrebbe fatto sapere. E, io, me ne sono andata».
Quando hai preso veramente coscienza di essere stata vittima di “grooming”? Ovvero, quando e come ti sei resa conto che una persona, in una posizione di “maggiore potere”, ha messo in opera una forma abusante nei tuoi confronti?
«C’è voluto del tempo. Allora, diciamo che lì per lì, ovviamente, ero disgustata. Io, poi, immediatamente dopo, ho mandato un audio alla mia coinquilina. Ho visto una mia compagna di classe, a cui ho raccontato la scena. Ho parlato con il legale del mio datore di lavoro dell’epoca, che mi ha detto: questa è una cosa che comunque tu puoi segnalare alle Forze dell’Ordine, decidi tu, se denunciare o meno, ma intanto, la puoi segnalare. Perché quello che ha fatto non è molto corretto. Io, allora, non ero del tutto sicura. Quindi, ho scritto sia alla mia insegnante, a una mia insegnante, quella di cui avevo magari un po’ più di confidenza, nel senso che sapevo che si occupava spesso di casting per la scuola. E anche al mio agente dell’epoca. Entrambi mi hanno risposto che questo non è il comportamento che ha un direttore del casting, o un regista, in fase di provino. E che quindi quello non era un vero provino. A quel punto, ho perfettamente capito cos’era successo e sono stata, ovviamente, molto male».
Una domanda, a questo punto, sul concetto di consenso. Ci sono dei casi in cui, secondo te, l‘espressione del consenso, o del pieno rifiuto, può non avvenire in maniera pienamente libera? Tu mi hai raccontato come ti sei sentita. Penso, ad esempio, a tutte quelle persone che hanno il dilemma che l’espressione di un non consenso a qualcosa, a qualcuno, possa pregiudicare il loro futuro, anche professionale. Cioè: “se non lo faccio, questo potrebbe compromettere il mio futuro professionale”.
«Io credo che il problema sia proprio questo: io credo che, in tantissimi settori, in Italia, e nel mondo purtroppo, le amicizie contano molto. Quello dello spettacolo è l’esempio proprio più lampante, l’esempio più grande, e più realistico. Nel momento in cui uno sa che tutti i registi si conoscono, tutti i registi si parlano, tutti i direttori dei casting conoscono gli altri, eccetera…vive un perenne, costante, timore che rifiutare o comportarsi “male”, in un certo modo, con qualcuno, possa riflettersi su tutta una carriera. Ovviamente, io non sapevo che lui non fosse un regista. Nel momento in cui penso che questo sia un regista, io penso anche che questo possa, semplicemente, decidere che io non lavorerò mai più. E la sua parola varrà più della mia, perché io sono una nuova arrivata e lui, invece, è uno del settore. Non avrà, di sicuro, neanche bisogno…cioè, da quel momento, le mie accuse saranno infamie, mentre lui sarà la povera vittima delle infamie di una attrice incapace».
Ricollegandoci a questo discorso, nella nostra chiacchierata telefonica, che abbiamo avuto prima di quest’intervista, tu mi hai detto una frase, tipo questa: «queste cose, nel mio mondo, sono da mettere in conto». Allora io ti chiedo: come ti sentiresti di spiegare questo concetto a una persona che, magari, ogni giorno accende la tv e guarda uno spettacolo, che è fatto da attrici, attori, professionisti. O a chi compra un biglietto per andare al cinema, e vedere la performance di un attore. Insomma, alle persone che, legittimamente, sono il pubblico.
«Io a queste persone direi che, in un …eh, cosa gli posso spiegare, più di quello che già è? Diciamo che è un dilemma esistenziale di chiunque si approcci al mio mestiere. Ovvero, molto spesso, uno deve accettare di fare quello che ama, aldilà della fama. Perché, ovviamente, l’offerta è tantissima e la richiesta è pochissima. Chi sta al vertice e ci è arrivato e nessuno sa, in realtà, quali mezzi abbia utilizzato, quindi se sono propri, o no, dispone di un potere enorme, nei confronti di queste persone. Perché fare il mio mestiere vuol dire veramente metterci anima e corpo, nel vero senso della parola. Mentre lo si fa, e mentre si cerca di farlo, quindi anche durante tutta la ricerca di un lavoro. Questi desideri, questi sogni, queste aspirazioni, sono veramente come il miele, per le mosche. Che sono i vermi. Ci sono tante persone che non prendono in considerazione la sofferenza degli altri. E molto spesso, non è neanche una prestazione sessuale. Quello che queste persone richiedono, ad attori o attrici, perché questa cosa non esiste solamente nel campo femminile ma, assolutamente, anche nella sfera maschile, è l’esercitare il proprio potere su un’altra persona».
Quindi tu dici che non è il fatto che tra i comportamenti abusanti ci sia anche la pratica di abusare sessualmente…
«Abusare sessualmente è un esercitare il proprio potere su un’altra persona».
Prima ne hai parlato un po’, però volevo che mi spiegassi meglio il ruolo che ha avuto, in questo processo di denuncia, la tua rete familiare, le tue colleghe, colleghi, le tue più intime amicizie. Siano esse uomo, donna, +.
«Io sono stata molto fortunata. Innanzitutto, perché, quando ho realizzato cosa era successo, per prima cosa io ho chiamato mio padre. E non sono stata in grado di spiegare al telefono, a mio padre, tutto quello che era successo, perché era ancora molto traumatico l’evento. Quindi non sono proprio riuscita a finire di dire quello che era successo. Mio padre mi ha semplicemente detto: ti ha messo le mani addosso? Quindi la prima persona che mi ha supportato è stata mio padre. Poi, quando ne ho parlato con alcune mie colleghe, la risposta è stata, all’unanimità: brava, perché c’è bisogno di fare luce su questo fenomeno, sempre, in continuazione, più che si può. E un grandissimo supporto io l’ho avuto dal mio ragazzo. Il mio ragazzo è uno degli uomini migliori che io abbia mai conosciuto, e non perché è il mio ragazzo. Ma perché è un uomo che veramente ha la totale comprensione di che cosa sia il rispetto, di quanto sia importante il consenso e le emozioni altrui. E quando lui ha capito quello che io volevo fare e quanto questo era necessario per me, per superarlo, mi è stato vicino al cento per cento. Sempre».
Dal momento della denuncia, e della prima condivisione con quello che era il supporto di primo aiuto che tu hai creato intorno a te, hai preso coraggio. E la denuncia è diventata pubblica.
«Allora, è successo questo. Io, a giugno 2020, sono stata chiamata da una mia compagna di classe a cui avevo raccontato la mia esperienza. Che mi aveva detto: Mary, senti, io dovrei andare domani a questo provino. Però, è un po’ sospetto. Ti posso chiedere quello che facesti tu, che domande ti aveva fatto? Io gliele dissi, lei mi disse: cazzo, sono le stesse identiche domande che ha fatto a me. Quando ho capito che era lui, perché non poteva essere nessun altro che lui, e che ancora faceva provini, mi sono impegnata al massimo per scrivere questo post e diffonderlo su tutti i canali possibili e immaginabili in modo tale che tutte le ragazze che facevano la mia professione e che potevano essere entrate in contatto con quest’uomo, per questo provino, venissero avvisate e, o lo “scaricassero” sul momento o, se c’erano già andate e avevano subito una violenza, andassero a denunciare. Il che è successo: ho trovato anche le altre ragazze che avevano denunciato successivamente. Fino ad arrivare alla vera e propria vittima di stupro. Che, informandosi attraverso il mio post, aveva preso il coraggio per denunciare, aveva contattato un avvocato, e l’aveva denunciato».
Io devo farti un’ultima domanda, alla luce di tutto quello che ci siamo dette. Hai paura?
«Sì. Io, specialmente da questo episodio, ho ancora abbastanza paura degli uomini che non conosco. Di stare in una stanza con un uomo che non conosco. È una cosa che, per fortuna, facendo della psicoterapia, perché comunque, io, anche per altri motivi, sono andata in terapia, dopo questo evento, sono un po’ riuscita ad elaborare. I primi tempi, ricordo, vere e proprie crisi di panico e di pianto a uomini che mi facevano i complimenti. Adesso ho paura. Però, è una cosa controllata. Però non mi sono ancora ripresa, io, da quello che è successo, perché io ho riposto la massima fiducia nei confronti di qualcuno. Nei confronti di un uomo. Perché di un uomo stiamo parlando. E quello, proprio perché mi ero fidata, ha abusato di me. Io non saprò mai perché, di tutte, ha scelto me. È una domanda che mi sono fatta. Ma è ovvio che, generalmente, uno non sapendosi dare una spiegazione, si attribuisce la colpa. E questo porta ad avere paura. Perché ti porta a dire: se la colpa è mia, è una cosa che dipende da me, allora vuol dire che io, in relazione a qualcun altro, posso scatenare la stessa reazione. Questa è una cosa che ancora devo del tutto elaborare. E che credo non solo io, ma tantissime altre donne nel mondo devono comprendere. Perché questa credenza diffusa dice che la donna fa qualcosa per scatenare questi eventi. Nessuno fa niente per attirare addosso a sé questi eventi. Nessuno desidera la violenza, la molestia, lo stupro, e tutto quello che ne viene. Perché è nell’istinto di autoconservazione dell’essere umano. Quindi io ho paura perché ancora sembra che debba…perché ancora sono io, la colpevole, nel resto del mondo. E ho paura perché ho scoperto che ci sono uomini che fanno leva su questo fatto per poter fare quello che vogliono. Io qui parlo degli uomini perché ovviamente è la cosa più normalmente accettata, e quindi anche più manifestata. Però è ovvio che c’è anche una fetta di mondo femminile che, a suo modo, applica della violenza sugli uomini, perché socialmente accettata».
Vuoi aggiungere qualcosa?
«Io, per terminare, ora che siamo entrate in tema di violenza femminile sugli uomini, vorrei dire semplicemente una cosa: quello che è il consenso, non è una prerogativa esclusivamente femminile. In maniera ovviamente differente, e forse più nascosta, esiste un suo corrispettivo anche nell’universo maschile. Io non vorrei che quello di cui ho parlato oggi fosse visto come un banale atto di violenza di un uomo verso una donna. Ma come uno stato mentale, dal cui dobbiamo sottrarci tutti. Ovvero, quello di approfittare delle debolezze altrui per dare sfogo ai nostri istinti più bassi. Spero, in piccola parte, che sia un invito a evolversi. Ed evolverci. Quindi, a chiunque voglia leggere quello che hai scritto o sentire dalla mia esperienza, io invito veramente a farsi un esame di coscienza. Semplicemente, per prendere coscienza di un fenomeno, e voler diventare una persona migliore. Perché si può. Ognuno, nel proprio piccolo».
In realtà, Mary, credo che tutti abbiamo qualcosa da migliorare, nel nostro piccolo quotidiano. Ci sono dei comportamenti, nella nostra società, che sono normalizzati, trascinamento di un’ignoranza culturale, di una scarsa consapevolezza, anche del senso delle parole. Che possono creare l’humus fertile, poi, a forme di violenza. Banalizzare ed essere superficiali, anche nell’utilizzo delle parole è una forma di, diciamo così, “stupidità violenta”.
L’ intervista è finita.